Il Signore, Maria, l’ha scoperta lì. Nei rioni popolari, grevi di sudori e impregnati di stabbio. Nei quartieri bassi, dove i tuguri dei poveri, se rimangono ancora in piedi, è perché si appoggiano a vicenda. Nell’intreccio dei vicoli, profumati di vita quotidiana e allietati dal gioco dei bambini. Nel cortile dove i vicini sedevano al fresco della sera, prima che si consumasse l’olio della lampada e risonassero i chiavistelli che sprangano gli usci. L’ha scoperta lì. Non lungo i corsi della capitale, ma in un villaggio di pecorai, sconosciuto nell’Antico Testamento, anzi, additato al pubblico sarcasmo dagli abitanti delle borgate vicine: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?». L’ha scoperta lì, in mezzo alla gente comune.
Maria non aveva particolari ascendenze dinastiche. L’araldica della sua famiglia non vantava stemmi nobiliari come per Giuseppe (uomo della casa di Davide); era una donna del popolo. Ne aveva assorbito la cultura e il linguaggio, i ritornelli delle canzoni e la segretezza del pianto, il costume del silenzio e le stigmate della povertà. Prima di diventare madre, Maria era, dunque, figlia del popolo. Apparteneva, anzi, all’anima più intima del popolo: alla innumerevole schiera dei poveri.
Donna del popolo, si mescola con i pellegrini che salgono al tempio e si accompagna ai loro salmi. E se in uno di questi viaggi perde Gesù dodicenne, è perché, «credendolo nella carovana», non sa immaginarsi suo figlio estraneo all’ansimare della gente comune.
C’è nel Vangelo di Marco una icona di incomparabile bellezza che delinea la natura, la vocazione e il destino popolare di Maria. Un giorno, mentre Gesù sta parlando alla folla che lo ascolta seduta in cerchio, arriva lei con alcuni parenti. A chi lo avverte della sua presenza, Gesù, girando tutto intorno lo sguardo e additando la folla, esclama: «Ecco mia madre…».
A prima vista, potrebbe sembrare una scortesia. Invece, la risposta di Gesù, che identifica sua madre con la folla, è il monumento più splendido eretto a Maria, donna fatta popolo.
Donna del popolo che ha convissuto con la gente, prima e dopo l’annuncio dell’angelo, senza pretendere da Gabriele una scorta permanente di cherubini, che facesse la guardia d’onore sull’uscio di casa sua.
Donna del popolo che pur consapevole di essere la madre di Dio, non si è ritirata negli appartamenti della sua aristocrazia spirituale, ma ha voluto assaporare fino in fondo le esperienze, povere e struggenti, di tutte le donne di Nazaret.
Oggi che viviamo tempi difficili, in cui allo spirito comunitario si sovrappone la sindrome della setta, agli ideali di più vaste solidarietà si sostituisce l’istinto della fazione, alle spinte universalizzanti della storia fanno malinconico riscontro i sottomultipli del ghetto e della razza e il partito prevarica sul bene pubblico e la lega sulla nazione e la chiesuola sulla Chiesa; è proprio sull’esempio di questa straordinaria donna, madre di «una moltitudine immensa di ogni nazione, razza, popolo e lingua», che ha acquistato una cittadinanza planetaria che le permette di collocarsi su tutte le frontiere del mondo, per dire ai suoi figli che queste, prima o poi, sono destinate a cadere, che possiamo rafforzare la nostra declinante coscienza di popolo, offrire una forte testimonianza di comunione, sulla quale il mondo possa cadenzare i suoi passi ed imparare a condividere con la gente le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce che contrassegnano il cammino della nostra civiltà; per riassaporare il gusto di stare in mezzo, liberi dall’autosufficienza e snidati dalle tane dell’isolamento.
Perché si possa tornare a rendere giustizia ai popoli distrutti dalla miseria, e donare pace interiore ai popoli annoiati dall’opulenza.
Perché si possa tornare alla sostanza delle cose, privando il mondo di quell’anima barocca che adopera i vocaboli come fossero stucchi, e che convince che per affermarsi nella vita bisogna saper parlare anche quando non si ha nulla da dire.