#iostoconMattarella. #dittaturadellospread. #impeachment. Eccoli alcuni tra gli hastag più usati sui social in questi giorni di crisi politica. I premier transitori si susseguono, gli aspiranti leader costruiscono scenari e alleanze improbabili, le istituzioni traballano e cittadini stanno a guardare. Ma non solo. Nel tempo dell’iperconnessione e dell’infinita disponibilità degli spazi di comunicazione, l’uomo comune incarna nuovi ruoli. Da spettatore di talk show televisivi, da lettore di giornali schierati per l’una o l’altra parte, diventa protagonista del dibattito. Legge ma può anche scrivere. Guarda ma produce contenuti. L’elettore 2.0 (o forse qualcosa di più) finalmente si libera delle briglie comunicative che lo incatenavano ed esplode inarrestabile nell’agone pubblico. E partecipa, costruisce, parteggia attivamente, sposta opinioni. E lo fa sul web, il luogo della “democrazia” popolare, della libertà populista, delle prese di posizioni più o meno equilibrate, dell’indignazione prêt-à-porter. Lo scenario si complica e, con esso, la comprensione di ciò che accade realmente. I capi popolo incitano e la gente risponde entusiasta. Nascono così terreni in cui il conflitto è la pianta che cresce più rigogliosa. Ma che può trasformarsi in altro. Nella migliore delle ipotesi, in frutti fecondi di dialogo e confronto. Nella peggiore, in fiori del male, in gramigna nauseabonda e urticante. Succede con i cosiddetti “discorsi d’odio”, quell’hate speech che rischia non solo di diffondersi a macchia d’olio ma di istituzionalizzarsi e di contagiare anche le persone (in apparenza) più miti.
Gli haters prolificano e se la prendono con chiunque ostacoli e si contrapponga alle idee e alle convinzioni che muovono il loro livore. Anche con un Presidente della Repubblica, garante supremo dei loro diritti. E lo fanno perché non sanno (e non vogliono sapere) che stanno commettendo un reato (come recita l’articolo 278 del codice penale nel caso del Presidente). Ma anche perché per loro il bersaglio da colpire è indifferente. Che sia il Capo dello Stato o il vicino di casa non cambia. L’odio è indipendente, abbraccia tutti senza distinzioni ma lascia strascichi pesanti. Loro, però, non se ne rendono conto, accecati da sentimenti di rivalsa sociale, da voglia di emersione da anonimati frustranti, da ricerca ossessiva di gratificazioni intellettuali. L’odiatore online oltre a essere un deviante e un trasgressore di norme, è un soggetto (nella maggior parte dei casi) incosciente. È questo l’elemento più preoccupante che rischia di scardinare ogni tentativo educativo. La responsabilità diventa, quindi, un optional. C’è o non c’è il risultato non cambia. In Rete dico e faccio ciò che voglio perché sono convinto che non ci sarà alcuna conseguenza. Perché ancora credo che un social network sia uno spazio virtuale nel quale tutto è concesso e in cui posso proiettare i miei rancori più profondi. Perché non riconosco più le distanze sociali tra e me l’altro, quelle differenze che inevitabilmente contraddistinguono le nostre esistenze e che dovrebbero rappresentare le bussole per orientare le nostre azioni.
La “società orizzontale” priva di riferimenti altri e alti è quanto di più antidemocratico e superficiale possa esistere. Ogni ambito ha la sua funzione e garantisce l’equilibrio sociale. L’odio è l’antisocialità per eccellenza, la distorsione di ogni relazione autentica, la castrazione di ogni generatività. Tutti dovremmo rendercene conto. Noi cittadini comuni ma in primis loro. Quei rappresentanti delle istituzioni che dovrebbero appunto rappresentarci e rassicurarci e che (è cronaca di questi giorni) sono corresponsabili (e in alcuni casi cause principali) del dilagare dell’odio.