Lo showbusiness ha bruciato la vita di Andrea Antonelli

Antonelli correva nella categoria Supersport in una bufera di pioggia: il 25enne, come i suoi colleghi, andava alla cieca a 250 orari sull’asfalto di Mosca, sperando in una sorte amica. Improvvisamente gli ha girato le spalle: scivolato sull’asfalto e colpito alla testa da un’altra moto.

Ancora un lutto nello sport, di quelli che fanno male, di quelli che appena succedono ti viene voglia di dire “si poteva evitare”. Il MotoGp è ormai pieno di queste occasioni perdute, di vite spezzate da uno showbusiness che non ammette intromissioni, neppure quando le condizioni atmosferiche consiglierebbero di aspettare. Invece no, occorre andare sempre avanti, perché così chiedono le ferree regole del circuito, perché ai tifosi una gara sotto la pioggia piace eccome, e l’adrenalina di chi si gusta una gara dalla poltrona di casa, il cosiddetto consumatore finale (sportivo o appassionato è quasi troppo) oggi rischia di valere di più di una vita umana.

Andrea Antonelli correva ieri nella categoria Supersport in una bufera di pioggia: il 25enne, come i suoi colleghi andava alla cieca a 250 orari sull’asfalto di Mosca, sperando in una sorte amica, che improvvisamente ha girato il volto al ragazzo di Castiglione del Lago, colpito alla testa da un’altra moto. Poi si può discutere sulla dinamica, sul modo di correre e sulla tempestività dei soccorsi, persino sulle coincidenze tragiche che legano questo dramma a quello di Marco Simoncelli: resta il punto fermo di quel ragazzo a terra, con i medici attorno che scuotono il capo e con il papà Arnaldo che lo vede morire dai box, proprio come era accaduto a Paolo, padre del Sic.

Di fronte a tutto questo, diventa quasi offensiva la levata di scudi dei piloti, che ora s’indignano perché con quella pioggia non si vedeva nulla e ci si doveva fermare per tempo. Prima o poi qualcuno avrà il coraggio di ribellarsi prima e non dopo, all’arroganza e al cinismo di quello che alcuni chiamano ancora sport. Il paradosso è che Andrea non era una star del circuito, non godeva d’ingaggi milionari. Era la passione a farlo correre, una passione sana, che aveva paletti ben piantati, tanto è vero che aveva aderito come testimonial a una campagna sulla guida sicura, ma che alla fine è stata travolta, come la sua Kawasaki impazzita, in una nube d’acqua.

Dakar, Formula Uno, MotoGp: non sappiamo quando finirà questa mattanza, ma per favore non chiamiamola a tutti i costi sport. E se, come ha evidenziato bene ieri “La Stampa”, il motociclismo non potrà mai essere una disciplina sicura, con il destino pronto sempre a entrare in scena, questo non significa doverlo aiutare.