Lievito al pensiero degli altri

Incontro con l’animatore degli Amici della Biblioteca Tommaso Federici.

Insegnante attento alle innovazioni didattiche, Tommaso Federici ha seguito i ragazzi e la loro formazione anche fuori dalle aule, cercando di aiutare le nuove generazioni a prendere a cuore le cose, ad accettare le sfide difficili, a vivere il rigore dello studio con intelligenza, a partire dai propri limiti per cercare di superarli. Con umiltà, ma non senza ambizione e voglia di vincere.
Caratteristiche che del resto non possono mancare in quello che è anche un uomo di sport: allenatore, fondatore e dirigente di una scuola-calcio.

Il professor Federici è un uomo dalle mille iniziative, dotato di uno spirito ludico che però serve a inquadrare e non a distrarre; “popolare”, ma senza retorica, impegnato con discrezione nella “vita civile”, ma estraneo ad una concezione “leaderistica” del rapporto con gli altri, sembra laicamente legato ad una pratica di rispetto e valorizzazione delle persone.

Allergico alle definizioni “buoniste”, è però capace di dare sostanza al concetto di responsabilità verso gli altri. Difatti ama lavorare in «equipe», come nel caso del gruppo degli Amici della Biblioteca, del quale fa parte ed è spesso animatore ed organizzatore, ma (ci tiene a sottolinearlo), al pari di varie altre persone di buona volontà.

Lo abbiamo incontrato a casa sua ed ha subito esordito nel dialogo sottolineando la necessità di saper rivedere le proprie idee. Una cosa imparata «nel secondo anno di insegnamento, per il dovere professionale del “rigore”: pensavo che il dovere fosse il massimo, ma dimenticando che prima c’è il diritto».

La storia è breve: da insegnante coscienzioso quale ha sempre cercato di essere, scriveva sul diario degli alunni il giudizio sul loro rendimento perché i genitori apponessero la firma per “presa visione”. Ma con un alunno c’è qualche problema: «veniva a scuola senza libri, era assente, non riuscivo a “prenderlo” per niente. Volevo capire perché, cosa stava succedendo». Così chiede con molta insistenza un incontro con i genitori. Ma quando si presenta la madre del ragazzo, scopre che la donna, abbandonata dal marito, ogni mattina si alza alle quattro per «annà a cercà un tozzo de pane pe’ sto figlio, perché sennò non sa cosa mangiasse».

«Mi resi conto allora – spiega Federici – che prima di dare dovevo sapere, mi dovevo aprire al dialogo per poi eventualmente offrire qualcosa. Ed ecco che il mio rigore (rimasto! per il semplice fatto che la regola non può non essere la regola) ma prima della regola bisogna sapere come dare e cosa dare. Nasce così “Tomassino”».

Allora parliamo dell’uomo che – per così dire – si è fatto da sé. A Rieti questa indole non c’è troppo poco? In questa città lo spirito di iniziativa non è tanto valorizzato, socializzato o condiviso. È quasi quasi malvisto. Sbaglio?
Mah, siccome ero l’ultimo di nove figli e non c’avevo mezza lira – perché mio padre non mi dava mezza lira – giocando a bande rivali tra le macerie dell’Incis nel dopo guerra, mi resi conto che c’era tanto di quel ben di Dio (ferro, acciaio, rame, zinco, alluminio…) che andai da un robivecchi, comprai una seghetta e cominciai a segare. Così ho fatto i soldi e son campato parecchio tempo con quel materiale che stava lì. Quando mi sono accorto che sotto i banchi del liceo c’erano tantissimi volumi abbandonati e ho cominciato una compravendita di libri usati. Dai 17 fino ai 22 anni, quando si facevano le feste da ballo per avere il piacere di stare con le ragazze, sono sopravvissuto con quelle che ho organizzato all’hotel Europa. Nel ‘56 pensai che era opportuno fare la “festa della matricola”, che ho portato avanti fino al ‘63, quando mi sono sposato. Ma non è finita: quando mi sono accorto che a Rieti non c’era la possibilità di far fare sport come si deve ai ragazzi, mi sono inventato la Pro Calcio Rieti, per la semplice ragione che lo sport non deve stare in mezzo agli imprenditori che vogliono investire soldi per cavoli loro, ma deve stare in mano a gente che fa calcio per fare il calcio. Questo fino ad arrivare ad oggi con quest’altra iniziativa degli Amici della Biblioteca.

Bene i ricordi, ma c’è una memorialistica che potremmo definire “regressiva”, del tipo «com’era bello il mondo un tempo» – rispetto alla quale a Rieti abbiamo uno sterminato campionario di autori – ed una che potremmo definire “critica”, che invece cerca di capirci qualcosa guardando alla vita sociale e a cosa è accaduto alla città. Una città che potremmo addirittura definire “feudale”, “guelfa”, “tradizionalista”, ma che non manca di settori dotati di spirito critico e di una propria autonomia di giudizio. Una linea di discriminazione oltre la quale lei sembra essersi ritrovato naturalmente…
Credo che in questo abbia contribuito l’origine viterbese dei miei genitori. Conoscendo i genitori dei miei amici mi sono reso conto che erano persone isolate, distanti, per certi versi anche chiuse. Ma forse sono semplicemente uno che non può stare fermo… tanto che ancora oggi sento il bisogno di fare qualcosa.

Rieti città chiusa o Rieti in qualche modo aperta? Guardiamo al caso del nucleo industriale. Abbiamo avuto una sorta di industrializzazione dall’alto e di tipo tecnologico, ma questo non ha modificato poi molto la mentalità reatina. Abbiamo avuto una generazione mista che all’uscita dalla fabbrica finiva la giornata nell’orto. La base contadina che resta non è un male, ma forse è mancata una vera apertura mentale. Sembra arrivata prima la crisi. Ci sarebbero volute ancora un paio di generazioni per dire che Rieti si apriva al mondo? Oppure è vero anche il reciproco: che l’industrializzazione fallisce anche per via della nostra chiusura?
Mi pare che l’industrializzazione a Rieti non ha avuto un effetto così eccezionale come quella che si vede altrove. Visitando alcune località ci si accorge che hanno una mentalità completamente diversa: sono di oggi, non sono quelli di ieri. C’è anche più spirito d’iniziativa, d’impresa.

Il cenacolo degli Amici della Biblioteca sembra quasi un sostituto, un alludere a qualcos’altro. Lo spirito degli Amici della Biblioteca è quello dell’apertura. Però di fatto si ritrova ad essere fatto da un certo gruppo di persone perfino isolate dalla città, nonostante tutti gli sforzi. Ottime persone che però stentano ad avere mordente sulla cultura cittadina. Eppure non c’è traccia dello spirito un po’ elitario di certi altri cenacoli.
A questo proposito posso dire che le persone che fanno parte di questo gruppo – il nucleo centrale che si riunisce con me è di una decina – hanno uno spirito d’iniziativa particolare. Anche se manca ancora quella spinta fondamentale, indispensabile per dire: «oggi mi butto». Questo però non vuol dire che non sono ricche di qualcosa che vogliono mettere fuori, né che allo stesso tempo non siano predisposte a raccogliere dall’altro.

L’idea sembra quella di non avere sempre una persona che viene da fuori. Più spesso interessa affrontare tematiche proposte dall’interno dell’associazione, ma lasciando aperta la possibilità a vari contributi. Questo atteggiamento di essere alla pari – e di poter recepire, ma anche dare – sembra una posizione valida…
Quanti vengono da noi non saranno mai e poi mai remunerati. Sono in genere persone che arrivano agli Amici della Biblioteca per il piacere di dialogare. Il mio lavoro consiste nell’andare alla ricerca di persone che usano la testa, persone che pensano. Non c’è bisogno di persone erudite o colte. Le persone che pensano sono quelle che rielaborano quello che raccolgono e gli rimane qualcosa dentro. Qualcosa che si può rioffrire perché possa essere lievito al pensiero degli altri. Se non fosse così non staremmo ancora qua da dieci anni a questa parte. E non posso negare che quando torno da questi incontri sento il bisogno di un libro, sento il bisogno di arricchirmi e di trovare qualcosa che mi aiuti a rielaborare quel che è stato detto e quel che è stato fatto.

C’è un parallelo tra l’autonomia di pensiero e la gratuità. Come dire: se sei veramente autonomo non hai bisogno di un sostegno tale per cui altrimenti non riesci a fare le tue cose. In qualche misura autonomia e gratuità vanno di pari passo…
Due sono i principi che debbono regolare una persona quando viene a dialogare con gli Amici della Biblioteca. Il primo è il coraggio dei propri dubbi: «non ti nascondere». Il secondo è l’umilta delle proprie certezze: «non pensare d’essere chissà chi». Una prospettiva nata dalla consapevolezza che la saggezza popolare è un valore inestimabile, derivata dall’esperienza di quanto alcune persone mi hanno offerto quotidianamente. Spesso dialogando con le persone più semplici sono rimasto colpito dalle loro risposte. Erano talmente ricche di saggezza da rendere inutile la cosiddetta cultura. A partire da questo mi sono detto: perché non offrire, non creare, delle condizioni di dialogo tra i cittadini, perché ognuno si riappropri del diritto alla parola e diventi protagonista, artefice di cultura? In questo senso gli incontri degli Amici della Biblioteca hanno la pretesa di essere incontri di promozione culturale.

L’offerta è senza dubbio interessante, ma quale pubblico incontra? Ad esempio, vengono i giovani agli appuntamenti?
Pochi. Ho fatto questa esperienza: sono andato nelle classi, e ho spiegato che ci sarebbero stati incontri sui temi del dialogo tra le generazioni. Discutendo soprattutto con i ragazzi più grandi sono stato accolto favorevolmente. Però quando si è trattato di venire a dialogare con noi, la presenza è stata minima. E tutta di persone già innamorate della cultura. Ho l’impressione che manchi proprio la predisposizione d’animo ad ascoltare le vecchie generazioni. Mi sono accorto che gli adolescenti – ed oggi si è adolescenti fino ai trent’anni – ci hanno cancellato dalla loro mente. Per loro i più anziani sono soltanto una rottura di scatole che ostacola il vivere alla giornata. Perché per le generazioni di oggi si tratta solo e soltanto di vivere alla giornata. Ma è la cosa più grave che possa succedere ad un adolescente.

È quanto accade perché parliamo di giovani già globalizzati, omologati, che difficilmente trovano una loro autonomia di pensiero?
È il risultato di un certo consumismo, e del fatto che oggi anche radio e televisione non fanno per niente cultura. È un dramma, perché oggi c’è soltanto la cultura che agevola il consumismo.

Quindi alla fine si può coltivare una nicchia di pensiero libero sapendo però da principio che la cultura dominante fa piazza pulita di tutte le “sottoculture”.
La forza consumismo non permette altro. La globalizzazione e il libero mercato hanno creato un caos spaventoso. Oggi l’uomo è solo qualcuno che deve andare ad acquistare.

L’impotenza di fronte a fenomeni di questa natura è grandissima, al punto che perfino le istituzioni finiscono col subire questo tipo di dinamica. Almeno in questo senso gli Amici della Biblioteca hanno avuto la fortuna di avere un’attenzione positiva da parte del Comune…
Sì, quando abbiamo esordito era assessore Formichetti ed ha capito che la nostra era un’iniziativa da prendere in esame. Non so quale livello di consapevolezza abbia avuto. Ma so che proposte simili dovrebbero nascere nei quartieri. Ecco un’altra cosa da fare. Noi oggi abbiamo le consulte, ma quello che occorre sono i comitati di quartiere. Io sono convito che una volta avviati crescerebbero spontaneamente.

L’ipotesi è suggestiva, ma sembra del tutto controcorrente. Dobbiamo guardare con sfiducia ad ogni prospettiva di miglioramento o si possono trovare le strade giuste?
A proporre soluzioni si può essere scambiati per dei presuntuosi. Ma – se posso permettermi – l’unica possibilità è quella di ricostruire a partire dalla famiglia. Per questo parlo del quartiere: bisogna trovare il modo di farlo tornare spazio per le famiglie. Poi da lì i percorsi si fanno trovare. Io rimango affascinato da racconti giornalistici di paesetti di 200 anime che organizzano, si danno da fare, hanno una mentalità aperta, non si sono bloccati, non sono morti. Ma la questione è complessa, perché non si tratta di tornare indietro. Ma di coltivare valori autentici in condizioni nuove