Più di duecentocinquanta persone – catechisti, operatori Caritas, ministri, religiose, religiosi, sacerdoti e diaconi – si sono ritrovate domenica pomeriggio al Centro pastorale di Contigliano per il primo appuntamento del secondo anno del ciclo triennale di formazione diocesana. Dopo aver esplorato, lo scorso anno, la vita interiore e la preghiera, il percorso entra ora nel vivo delle dinamiche umane: quelle che, come ha ricordato padre Gaetano Piccolo, «possono sostenere o compromettere l’annuncio del Vangelo».
Le maschere che indossiamo
Il gesuita ha invitato i partecipanti a guardarsi dentro con sincerità, a partire da una domanda tanto semplice quanto radicale: «Quale maschera mi metto?». L’immagine del palcoscenico – proposta anche nelle slide dell’incontro – è servita per introdurre il tema: ognuno di noi recita dei ruoli, spesso nati per necessità, per difesa o per desiderio di essere accettato. Ma col tempo quelle maschere diventano pesanti, ci separano dagli altri e da noi stessi.
Padre Gaetano ha offerto esempi concreti e riconoscibili: la maschera del perfetto, del piccolo professore, della vittima, della crocerossina, del salvatore, del clown. Ruoli che possono avere una funzione, ma diventano disfunzionali quando non riusciamo più a toglierli: «Il problema nasce quando una madre che fa l’insegnante continua a fare l’insegnante anche con i figli, o un poliziotto resta poliziotto anche con gli amici. In quel momento non c’è più libertà».
Il discorso ha preso poi una direzione più profonda: da dove vengono queste maschere? Per padre Piccolo, esse affondano le radici nella prima infanzia, intorno ai sette anni, quando per la prima volta impariamo a stare nel mondo e decidiamo – senza saperlo – chi vogliamo essere. «Con i mezzi che avevamo – ha spiegato – abbiamo scelto una strategia di sopravvivenza. Non è colpa nostra. Ma oggi possiamo guardarla, riconoscerla, e se non ci piace, cambiarla».
Il copione e la libertà
Seguendo un filo che unisce psicologia e spiritualità, il gesuita ha parlato di copione interiore: una storia che ciascuno scrive da bambino e poi, per anni, mette in scena. «Molti dei nostri comportamenti, anche in ambito pastorale, dipendono da quel copione. È da lì che nasce il bisogno di controllo, di approvazione, di riconoscimento».
Ogni maschera, ha spiegato, è un modo di cercare amore e sicurezza. Alcune relazioni diventano manipolative proprio perché servono a confermare la parte che abbiamo scelto di recitare. «Una relazione è sana – ha detto – quando scelgo l’altro per quello che è, non per quello che mi serve».
Dopo la prima parte dell’incontro, i partecipanti si sono divisi in piccoli gruppi di lavoro, per condividere esperienze e riflessioni: quale maschera riconosco in me? La vivo liberamente o mi pesa? Vorrei cambiarla?
Dal riconoscimento alla liberazione
Nella seconda parte, padre Gaetano ha parlato di liberazione. Il passaggio, ha spiegato, non consiste nel negare le maschere, ma nel guardarle con uno sguardo di misericordia. «Dio ti conosce fino in fondo, e davanti a Lui non hai bisogno di nasconderti. La preghiera diventa curativa proprio perché è il luogo in cui puoi finalmente essere te stesso».
Ha invitato ciascuno a scrivere su un biglietto un messaggio nuovo da donare a sé stesso – una parola gentile da contrapporre alle frasi negative che ci portiamo dentro. «Quando torneranno le voci che ti dicono che non vali, che non sei capace, rileggi quella parola. È l’antidoto al veleno che ti abita».
Il riferimento evangelico della giornata, la parabola del fariseo e del pubblicano, ha illuminato l’intero cammino: «Il pubblicano è giustificato perché non ha più maschere. Il fariseo no, perché continua a indossarla. La conversione comincia quando smettiamo di recitare».
Dalla parola al silenzio
Al termine dell’incontro, il vescovo Vito Piccinonna ha ringraziato padre Gaetano e rilanciato l’impegno del percorso formativo: «Ciò che non viene assunto, non può essere salvato. Anche la nostra umanità, con le sue fragilità, va accolta, perché solo ciò che prendiamo in carico può diventare luogo di salvezza».
Poi ha introdotto il momento conclusivo: una fiaccolata silenziosa, aperta a tutti, a una settimana dal tragico assalto al pullman dei tifosi di Pistoia. «Viviamo questo silenzio – ha detto – come ascolto e come dolore condiviso. Non per chiudere una ferita, ma per sentire che ci riguarda».
Mentre le fiaccole si accendevano nel crepuscolo, il senso dell’incontro si è fatto gesto collettivo: togliere le maschere, ritrovare il volto. Perché solo da volti veri può rinascere una comunità.

