A confronto le notizie sul terrore e quelle sulla speranza
Il vortice spaventoso di una violenza che si proclama islamica non lascia certo nell’indifferenza chi ai bordi della cronaca segue il tragico percorso.
Le domande si susseguono e sopra tutte campeggia il perché non si riesca a contenere una furia disumana e devastante. Perché quel silenzio che papa Francesco ha denunciato più volte parlando, in particolare ma non solo, dei cristiani perseguitati?
La speranza messa a durissima prova ha bisogno, per non soccombere, di un sostegno anche piccolo, anche lontano dai teatri del terrorismo.
Basterebbe il racconto di un fatto vicino.
Potrebbe essere, questo, un tentativo inutile vista la sproporzione tra lo tsunami di malvagità che attraversa vaste aree del mondo e la piccola onda di umanità che attraversa un territorio limitato.
Eppure occorre tentare.
E così tra i titoli dei giornali, delle radio, delle tv e di internet si cerca un titolo diverso da quelli che irrompono ogni giorno con il loro carico di sofferenza. Non per ridurre un peso, non per fuggire dalla realtà ma per aprire uno spiraglio nella crosta del male, per dire che un’altra realtà esiste, per dire che la speranza non è morta.
Non è un’impresa facile perché il terreno mediatico nazionale e internazionale, più che comprensibilmente, è occupato in massima parte da titoli che raccontano di devastazioni visibili e invisibili.
L’impresa sarà difficile, se non impossibile, se dalla ricerca di frammenti di speranza si escluderanno i media del territorio che raccontano, senza tacere la morte e il male, la vita buona e onesta della gente.
Chi è ai bordi della cronaca si esercita in un confronto tra le due realtà mediatiche, non per stabilire graduatorie ma per trarre, dalla diversità del comunicare, quei motivi che sono indispensabili per sostanziare un realismo che non sia senza speranza.
L’esperienza di una maestra che, a nome della comunità cristiana, insegna italiano a un gruppo di donne musulmane in un Paese del nord Italia non si bilancia con la sconvolgente strage di studenti in un’università africana.
L’esperienza di un detenuto che nella lettera a un settimanale locale riconosce il significato della pena e, nello stesso tempo, dice la sua passione per una vita nuova non cancella neppure in parte l’atrocità di un sequestro di innocenti.
L’esperienza delle reti di famiglie solidali che in diverse città si aprono all’accoglienza dei diversi e degli umili non annulla un egoismo di gruppo ma pone una domanda forte sul senso della paura e della chiusura.
Dicono, le tre piccole esperienze narrate da media locali, che la speranza non è morta.
Dicono, le tre esperienze rese notizie locali, che molti non si rassegnano al male, sfidano culturalmente il pessimismo e costruiscono luoghi di pace, di riconciliazione, di giustizia.
Le due mediasfere non sono da contrapporre, ma è importante che dalla loro diversità nasca un dibattito leale nella coscienza di chi scrive e di chi legge, di chi racconta e di chi ascolta, di chi riprende con la telecamera e di chi guarda le immagini.
Si è tutti attorno al campo dove vengono seminati terrore, morte e distruzione.
Si è tutti attorno al campo dove vengono seminati rispetto, accoglienza e speranza.
Due mediasfere di fronte alle quali la coscienza si lascia interrogare. Di fronte alle quali la coscienza non si rassegna. Di fronte alle quali la speranza si accende e diventa una luce che rompe il buio della cronaca.