La monocultura economica

Con tutti i discorsi su sviluppo e sottosviluppo, crisi e ripresa, da un punto di vista sociale e storico, assistiamo all’affermarsi a livello culturale di una concezione economica di stampo ultraliberista che rapidamente diviene ideologica e dominante.

Una gestione economica basata sulla sussistenza, cioè produrre, lavorare, commercializzare per approvvigionarsi non viene più considerata un’azione economica, ma uno stato di povertà.

Solo ciò che viene smerciato sul mercato nazionale e internazionale, venduto con una valuta che può essere cambiata in dollari e solo ciò che è basato sulla razionalizzazione tecnica, cioè su un elevato numero di pezzi e un notevole profitto, viene considerato economia. L’ONU avalla questa concezione restrittiva dell’economia stabilendo negli anni ‘70 del secolo scorso, in base al PIL e al guadagno medio degli abitanti, se un paese è ricco o povero, quanto sia sviluppato o sottosviluppato. Si misura quindi il flusso di denaro degli acquisti e delle vendite, calcolati in dollari, e non l’approvvigionamento effettivo, né la sua qualità. Le persone che, invece di consumare cibo-spazzatura industriale prodotto e distribuito in base a criteri commerciali, mangiassero i prodotti di un loro piccolo orto, sarebbero da considerarsi povere.

I tre-mondi

Apparentemente il discorso sulle politiche dello sviluppo sembra rivolto esclusivamente ai paesi del Terzo mondo e alla soluzione dei loro problemi di povertà, ma anche nei paesi a nord dell’equatore ha degli effetti culturali e sociali altrettanto profondi, anche se specularmente opposti. Uno degli effetti è la cecità nei confronti dei settori economici produttori di sussistenza nello stesso Occidente iperindustrializzato.

Questo è il messaggio che viene dato: allontanarsi nettamente da qualsiasi modello economico alternativo al dominante, al fine di evitare fallimenti e il rischio di diventare poveri quanto i poveri nel sud del mondo. Le conseguenze dell’eliminazione dell’economia di sussistenza dal concetto di economia colpisce con particolare violenza, perché nell’osservare i risultati negativi della globalizzazione neoliberale, è di grande difficoltà capire cosa capiti anche appena fuori la porta di casa nostra; mancano i termini di paragone, mancano i rapporti e la cultura di un’economia a misura d’uomo, divorati dall’astrattezza e dall’anonimato dei numeri e delle burocrazie sui quali si basano i moderni modelli di scambio economico, quali soli fattori positivi che possano promettere successo e sviluppo.

La “vera” economia

Leggiamo nei giornali o – se siamo disoccupati – viviamo in prima persona il risultato problematico della politica e delle decisioni economiche quotidiane frutto di questa ideologia, ma non ci viene il sospetto che questo possa in qualche modo aver a che fare anche con la distruzione totale del modello economico preesistente a quello selvaggiamente capitalista dell’oggi. Leggiamo tutti i giorni che la grande, “vera” economia sta vivendo una recessione, eppure restiamo incapaci anche solo di domandarci i reali perché. Ed è proprio su questa totale incapacità critica che prosperano lo smantellamento delle prestazioni sociali, dei diritti dei lavoratori e degli ammalati. Ci ricorderemo con amarezza dei discorsi che anche in questi giorni, tendono a legittimare questo tipo di politica sociale; servirà a migliorare la compatibilità della produzione europea con l’economia globale (dicono!), chiedendoci in cambio solo di chiudere gli occhi sullo sterminio di 60 anni di diritti.

La nuova povertà

Adesso anche noi in Italia, in quel “nord” considerato così ricco, siamo colpiti da fenomeni di impoverimento e più precisamente da quei tipi di povertà dai quali pensavamo di essere ormai al riparo, per aver solo e sempre seguito la religione di uno sviluppo senz’anima. Gli individui, i gruppi, i sindacati, le comunità, i partiti sentono ora di essere esposti e impotenti nei confronti del grande capitale internazionale e degli sciacalli della finanza (chiunque essi siano), stretti ormai nella fatale morsa di un tipo di economia che lega l’esistenza del singolo a denaro anonimo e a flussi astratti di merci. Malgrado ciò, non sappiamo proporre altro che un governo tecnico quale unica soluzione.

Siamo qui per chiedere la grazia. Ce la conceda professor Monti.

One thought on “La monocultura economica”

  1. Niccolò

    Posto che a nessuno sta simpatica la nomenclatura usuraia, che governa il mondo colpevolizzando i popoli con il mito del danaro (mito trasformato in fine, quando invece è il mito che produce la ‘ricchezza’), tuttavia la nostra difesa non è affidata ai Monti di pietà, che comunque sono parte del problema. Mentre è difficile distinguere il pazzo dal criminale (gli usurai) perché per molte cose possono essere uguali ma quest’ultimo è anche pericoloso per il prossimo. E’ un limite molto sottile, sul quale si basa tutta la speculazione finanziaria e mediatica internazionale: chi è il criminale? Chi affama i popoli? Oppure il terrorista che per disperazione si fa saltare in aria? Ambedue? Ma questa problematica non si evince dalla stampa, quindi per deduzione logica inconfutalbile siamo sotto un regime criminale. Ma la domanda è: perchè non ce ne liberiamo?
    Riflettendo, la tecnologia o le fantastiche manipolazioni virtuali del futuro compiute dalla finanza sono anch’esse opera di Dio, e c’è addirittura chi accusa il cristianesimo di essere stato la culla di cultura del materialismo e relativismo usuraio imperante, che ritengo invece sia totalmente pagano e/o precristiano, come si può vedere dalle ritualità massoniche.
    La scienza e la tecnologia non sono di per se il male, ma gli usurai esistevano da ben prima della nascita di Cristo ma noi si è pensato che le Sue parole fossero state sufficienti, dopo 2000 anni, per mettere fine questa piaga del danaro mammona che comanda gli spiriti degli uomini e delle donne. Infatti fu stabilito il New Deal, che cominciava un netto riequilibrio delle cose del mondo, patto tra Stati e finanza che è stato totalmente rinnegato proprio dal regime criminale.
    Che dobbiamo fare? Intanto merita una riflessione sui nostri errori e superficialità degli utili decenni. Se i mussulmani hanno addirittura vietato del tutto l’applicazione dell’interesse, dobbiamo diventare tutti mussulmani? No, il progresso non si fonda sul danaro, bensì sulle leggi e sulla scienza, queste davvero due conseguenze dirette del cristianesimo, che fonda il suo agire sul coretto ascolto della ‘parola’, e quindi porta l’umanità innanzi tutto alla specializzazione della parola e poi al principio altrettanto fondante della modernità che è quello per cui la verità non si conosce a priori ma si stabilisce attraverso il suo ‘rivelarsi’, attraverso l’imperativo della relazione con gli altri perché in fondo la scienza e la legge – scritta e uguali per tutti – nascono come tentativi di costruire modelli ripetibili,
    procedure rivelatorie, e sono comunque operazioni ‘linguistiche.
    Pertanto la nostra salvezza è tutta nella riscoperta del creato per come ce lo illustra il Vangelo, con la rivisitazione ed attualizzazione della verità rivelata in 2000 anni, che rendono il testo miracoloso: ha affermato che ci avrebbe liberato dal peccato originale, cioè dal ‘tu partorirai con dolore e tu lavorerai con fatica’, lo ha fatto puntualmente, perché ci ha consegnato leggi e scienza e ci ha salvato dalle più terribili piaghe e pene della vita. Solo che oggi, immemori di tanta grazia, rischiamo di distruggere tutto ciò perché nessuno ci ricorda gli infiniti successi storici del vangelo. Non doveva essere questo il ‘progetto culturale della Chiesa? Anche noi abbiamo di che fare autocritica.

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