La marcia inarrestabile del gender

«Per cambiare sesso all’anagrafe non serve l’intervento chirurgico». Prime riflessioni sulla sentenza della cassazione.

L’Italia un paese di “common law”, di diritto comune fondato sulla giurisprudenza? Parrebbe ormai sempre di più così, nonostante i cardini del nostro ordinamento civile si attestino ancora su norme, legislazioni e codici, ovvero sul cosiddetto “civil law”. Peccato, tuttavia, che ciò accada quasi esclusivamente in materia di diritti personalissimi dell’individuo e quasi mai (o sempre di meno) nell’ambito dei diritti soggettivi ed, in particolare, di quelli che abbiano una qualche valenza economica. Se difatti in tale ambito spesso e volentieri la Suprema Corte (e con essa la Consulta) articola sentenze “politiche” che privilegiano la stabilità economica dello stato a danno dei diritti di credito dei cittadini (il caso della cosiddetta “indennità integrativa speciale” sulla pensione di reversibilità ne è un esempio lampante; corte costituzionale n. 228/2010), assai differente appare l’atteggiamento degli “ermellini” laddove gli stessi intervengono con sentenze apparentemente futuristiche, innovative e di “jus superveniens” in materia di diritto alla vita, di sessualità, di trattamenti terapeutici e di tutto ciò che riguarda più strettamente l’essere umano in sé. E’ quanto accade sempre più spesso in tema di “identità di genere” ed è quanto è accaduto ieri grazie ad una “storica” sentenza della prima sezione della Cassazione Civile che ha riconosciuto il diritto al cambiamento del sesso (in Italia normato dalla legge 164/’82, dunque da ben 33 anni) anche senza interventi chirurgici su connotati o genitali del richiedente.

Il varco è aperto. L’ennesimo vulnus alla legge naturale iscritta nel cuore e nel corpo dell’uomo – creatura di Dio – è inferto. È avviata la “normalizzazione” anche in questo delicatissimo ambito del l’essere umano e del suo vissuto che è la percezione del se in armonia e sintonia con il proprio corpo e la propria sessualità. E così, come il figlio da dono di Dio e da essere naturalmente concepito è divenuto diritto insindacabile di chiunque desideri averne uno, lo stesso accade per chi – stufo per qualsiasi ragione della propria sessualità “biologica” (così la definiscono – separandola abilmente dalla tendenza sessuale – i fautori della teoria del gender) – voglia cambiare “sesso / identità personale” dal giorno alla notte. «L’ennesima coartazione della libertà dell’individuo è finalmente terminata!»: pare di sentirli – i liberalisti del pensiero – dinanzi alla storica sentenza. Per essi l’uomo dev’essere pienamente padrone di se stesso e di ogni espressione della propria corporeità e spiritualità, all’insegna di un relativismo anarchico e senza confini che rinnega le comuni origini dell’umanità intera da sempre radicata nella naturalità e nella spontaneità del suo rapportarsi vicendevole ultramillenario. Tale “legge naturale”, presente non solo nella cultura cristiana ma in ogni società ed in ogni ambito del vivere storico dell’umanità stessa, è oggi sistematicamente scardinata poiché retaggio “abietto ed illiberale” di una società etero ed omofoba che, nel libero terzo millennio, non ha più ragion d’essere.

Ed il percorso è sempre lo stesso: lo sdoganamento di quelle che, un tempo, erano ritenute patologie o, al meglio, disturbi di natura psicologica. Il passaggio è il medesimo: il fatidico “D.S.M.”, il “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali”. La “bibbia” di psicologi e psichiatri, e non solo. Arma invincibile delle potenti lobby da sempre operanti negli ambiti associativi internazionali (onu, unicef, e soprattutto organizzazione mondiale della sanità) attraverso le quali sono state fatte passare puntualmente – da oltre 40 anni a questa parte – le “rivoluzioni copernicane” in materia. Così è accaduto con l’omosessualità, dal ’73 espunta dal novero delle patologie. Così sta accadendo nell’ambito toccato dalla suprema corte: quello che un tempo era definito “disturbo di genere” e, dunque, per tal verso oggetto di terapie, oggi (dal 2013) viene definito assai più blandamente “disforia” che il dizionario online Treccani definisce come: «In psichiatria, alterazione dell’umore affine agli stati di depressione e di irritazione, spesso associata ad ansia e a comportamento impulsivo». Cambiato il termine, il gioco è fatto. La dissociazione – evidente in soggetti del genere – fra percezione del se corporeo e psichico esce dai riflettori degli esperti, “normalizzandosi”. Ciò che conta non è più l’incongruenza fa sesso biologico e identità, ma il “distress” percepito dal soggetto, ovvero la condizione emotiva che accompagna tale “discrepanza”. Come dire, in termini comprensibili per l’uomo della strada: che una persona, pur essendo uomo (o donna) si senta profondamente l’opposto, è assolutamente normale. Tuttavia – poiché la società etero/omofoba non accetta tutto questo e sottopone a discriminazione il soggetto – allora nasce la “disforia”.

La teoria del gender si fa strada dunque, in tutti i settori. Il “mostro” individuato nel retaggio sociale e nella mentalità omofoba deve essere distrutto, sacrificato sull’olocausto della “piena e libera determinazione dell’individuo”, imperativo categorico irrinunciabile.

Pochi sanno allora che tutto questo sta accadendo anche per un autentico incubo per tante famiglie e per i loro figli, ovvero la pedofilia. Il fatidico DSM, alla sua quinta edizione, declassa difatti la pedofilia a “disordine” (“phedofilic disorder”) e, addirittura, a orientamento sessuale (pedophilic sexual orientation) poi corretto in sexual interest. Gli addetti ai lavori si sono affrettati a smentire lo sdoganamento di tale orrendo crimine, affermando che Nel DSM-5 colui che mostra un’attrazione sessuale e agito verso i bambini, mostra un disagio clinicamente significativo e una compromissione dell’area sociale e psicologica (Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2013/12/dsm-5-pedofilia). Ma il dado è tratto. E la mancanza di ogni forma di informazione fa il resto. Come quella sul gender, teoria priva di ogni fondamento scientifico.