La guerriglia coreana

Tutta colpa (o merito?) del film “The interview”, irriverente col regime

Hans Christian Andersen non avrebbe mai potuto immaginare che, a quasi 180 anni dalla prima pubblicazione, la sua fiaba sarebbe stata così di attualità. Il re (o meglio, il dittatore) è nudo, a gridarlo è ormai l’intero pianeta (con l’eccezione di Putin), ma Kim Jong-un deve pensarla come l’imperatore famoso: “Ormai devo restare fino alla fine”, e così si raddrizzò ancora più fiero e i suoi hacker lo seguirono reggendo lo strascico che non c’era (per parafrasare la conclusione della storia).

Ad interpretare il ruolo del bambino della favola di Andersen, che apre gli occhi alla folla sulla nudità del sovrano, sono Evan Goldberg e Seth Rogen, registi e sceneggiatori statunitensi, autori di “The interview”: film satirico su Kim Jong-un, moderno “imperatore” della Corea del Nord. La trama è da commedia di Natale (il presentatore di un talk show, Dave Skylark, e il suo produttore, Aaron Rapoport, ottengono un’intervista con Kim Jong-un; ma tutto si complica quando la Cia chiede loro di assassinarlo), ma Pyongyang non ha preso bene il modo in cui viene ritratto il “Supremo Leader della Repubblica Popolare Democratica di Corea”. Ne nasce un caso internazionale, condito da dichiarazioni di guerra nordcoreane, attacchi hacker (neppure troppo mascherati) ed interventi russi da guerra fredda.

A giugno la Corea del Nord minaccia ritorsioni “senza pietà” verso gli Stati Uniti se non avessero impedito la distribuzione del film: per gli uomini di Kim Jong-un si tratta di un vero e proprio “atto di guerra”, uno “sfrenato atto di terrore”. Parole pesanti, soprattutto se provengono da una nazione che, per usare un eufemismo, non lesina di certo sull’utilizzo di strumenti coercitivi per ottenere il consenso. La Sony (distributore del film) non cede, ma per Pyongyang è un insulto gravissimo: il culto della dinastia Kim in Nord Corea ha i toni della fede religiosa più ortodossa.

Il 24 novembre la Sony Pictures Entertainment è vittima di un grave attacco da parte dal gruppo di hackers “Guardians Of Peace”: i Gop sottraggono materiale riservato della casa di distribuzione di Hollywood, provando così l’arma del ricatto. L’attacco non si ferma qui, gli hacker distribuiscono anche alcuni film inediti della Sony. A tutti è evidente che l’attacco proviene dai 3.000 “cyber-soldati” al soldo di Kim Jong-un ed il 22 dicembre l’Fbi certifica la notizia: è stata la Corea del Nord. L’incidente assume i toni del caso internazionale.

Il 18 dicembre la Sony annuncia il ritiro del film dalle sale, ma ormai il caso è troppo grande e scende in campo la Casa Bianca. Washington non può permettersi di sottostare al ricatto nordcoreano e, ancor meno, di apparire perdente nella cyberguerra: “Non viviamo – ha dichiarato Obama – in un Paese in cui un dittatore straniero può cominciare a imporre la censura negli Stati Uniti”. Scendono in campo anche gli hacker di Anonymous che via Twitter fanno sapere di essere pronti a distribuire loro il film. La Sony, sotto la pressione bypartisan di tutta l’opinione pubblica Usa, è costretta a cedere: il 25 dicembre il film è distribuito in quasi 300 sale degli States e su diverse piattaforme on-line (Google Play, YouTube Movies ed Xbox).

Il botteghino premia la Sony, ma Pyongyang non molla l’osso. I pirati informatici attaccano i servizi online della Playstation (Sony) e quelli della Xbox, causando un blocco di molte ore. E Mosca si schiera con Kim Jong-un: “L’idea del film – ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri, Alexandre Loukachevitch – è talmente aggressiva e scandalosa che la reazione nordcoreana è comprensibile”.