Il matrimonio è nullo se c’è stata violenza morale

Il matrimonio è un atto in cui si esprime in toto la libertà della persona, per questo la violenza morale esercitata sui futuri sposi rende invalida l’unione.

La Chiesa tutela da sempre la libertà del soggetto di unirsi in matrimonio: il nubente quindi dovrà avere la possibilità di potersi sottrarre, anche all’ultimo minuto, alla scelta matrimoniale, se questa risulta essere in contrasto con il suo effettivo volere.

Il cosiddetto vizio del “vis et metus” mette in evidenza la violenza, ovvero l’azione condotta con forza a scapito del soggetto, ed il timore, quella paura che tale azione provoca nell’animo della persona e che la porta a scegliere il matrimonio seppure contrario alla sua volontà.

Il primo requisito che va considerato è quello della gravità: il timore in questione dovrà essere si grave in senso assoluto, ma si terrà sempre comunque conto delle condizioni personali del soggetto che lo prova quali l’età, il sesso, l’indole o tutte quelle altre possibili circostanze che possono rendere qualcuno più vulnerabile e facilmente esposto all’intimidazione ed alla paura come ad esempio lo stato di gravidanza, un periodo di depressione nervosa etc.

Il timore dovrà poi provenire dall’esterno, quindi o direttamente dal partner o da una qualche altra persona interessata. La paura, provocata invece da un evento naturale quale ad esempio un terremoto od altro cataclisma non è direttamente imputabile ad una persona e quindi viene esclusa.

Non è necessario, poi, che il timore sia causato per indurre la persona a sposarsi, ma basta che abbia questo effetto: accade infatti talvolta che ci si sposi per uscire da una difficile vita familiare fatta di soprusi, minacce e sevizie da parte di un genitore.

È chiaro in questo caso che la volontà del soggetto non risulta essere libera e per tale motivo il coniugio sarà invalido: il matrimonio infatti è visto dal soggetto come unico modo per sottrarsi alla causa del timore, è l’unica via d’uscita non potendo di fatto scegliere nient’altro.

Altra figura è quella riguardante il “metus reverentialis”: il timore reverenziale si differenzia dalla violenza sopra descritta, perché tra i soggetti intercorre un rapporto particolare di dipendenza affettiva e/o psicologica quale può essere quello tra un genitore ed un figlio. La paura in questione potrà essere quella quindi di creare un dolore, un dispiacere, una disillusione alla persona cara provocando in lei magari risentimento o rancore tali da poter rovinare il rapporto. L’insistenza di un genitore affinché un figlio si sposi possono provocare in quest’ultimo un senso di colpa e un rimorso tali che lo inducono a contrarre un matrimonio anche contro la sua reale volontà.

Come si prova durante un procedimento canonico l’esistenza del timore? È facile basterà portare a conoscenza dei giudici la pura e decisa avversione del soggetto al matrimonio contratto, e si badi non necessariamente all’altra persona, ma al matrimonio con quella determinata persona.