Il “magis” come criterio del dibattito sinodale intorno alla famiglia

Il dialogo sulla famiglia, che in questi giorni di sinodo (dal 4 al 25 ottobre) vede come protagonisti ben 45 padri sinodali, oltre quelli previsti dagli statuti, ossia i rappresentanti degli episcopati, i capi-dicastero della curia romana, i membri delle Chiese orientali, i collaboratori del segretario speciale, gli uditori e i delegati fraterni, richiama alla mente il famoso “dialogo sulla vita” tenutosi nel 2006 tra il cardinale Carlo Maria Martini ed il medico, oggi sindaco di Roma, Ignazio Marino.

Dinanzi ai nodi più cruciali inerenti alla questione sulla vita, come l’aborto, la fecondazione eterologa e l’adozione di bambini da parte di singles, il noto biblista ha enunciato il criterio del “magis”, del “meglio”, il quale ha come scopo quello di cercare di assicurare in ogni circostanza dell’esistenza umana la presenza del maggior numero di condizioni favorevoli concretamente possibili.

E dove si trova il magis nel momento in cui si parla della famiglia? Secondo Martini esso si troverebbe in «una famiglia composta da un uomo e una donna che abbiano saggezza e maturità e che possano assicurare una serie di relazioni anche intrafamiliari atte a far crescere il bambino da tutti i punti di vista. In mancanza di ciò, è chiaro che anche altre persone, al limite anche i single, potrebbero dare di fatto alcune garanzie essenziali».

C’è quindi un “meglio” che è ben altra cosa di una realtà che viene rimediata per non farla scadere in qualcosa di peggiore, come potrebbe essere il caso dell’adozione dei bambini. Per il piccolo essere umano appena nato l’adozione non è mai la soluzione ottimale, ma è ciò che rimedia al grande male, quello senz’altro peggiore, di rimanere orfani e privo di qualcuno che si prenda cura di lui.

Il meglio per un bambino consiste nel potersi confrontare durante il suo percorso di crescita con un soggetto maschile ed uno femminile, che gli permettano di fare una «esperienza integrale e differenziale di umanità» (Aristide Fumagalli). Quella identità psico-fisica posseduta dal fanciullo fin dalla nascita ha bisogno di irrobustirsi sempre più e potrà farlo solo interagendo con i suoi genitori, uno di sesso maschile ed uno di sesso femminile.

Non avrebbe a mio giudizio alcun senso allora il creare fin dalla partenza per un bambino delle situazioni che dovrebbero costituire solo un rimedio che si fa incontro a quelli che sono i bisogni fondamentali di ogni essere umano, come quello di essere accolto ed amato da una famiglia.

Secondo il criterio del “magis” allora, se si vuole il bene del bambino, che deve anticipare quello degli adulti che lo hanno messo al mondo, si dovrebbe garantire l’univocità delle figure genitoriali rispetto alla loro molteplicità, causa generalmente di traumi e di ri-adattamenti nel bambino. Al tempo stesso il “meglio” è per lui il venire educato all’interno di una coppia eterosessuale invece che in una coppia monosessuata.

Nella coppia eterosessuale, infatti, si concretizza quella antropologia della reciprocità a partire dalla quale l’uomo si riconosce come uomo e la donna come donna. L’uomo si riconosce tale attraverso la donna e viceversa. L’uomo e la donna non possono guardare se stessi, ma si possono riconoscere come uomo e come donna solo nello sguardo che l’altro gli dona. In quel trovarsi “faccia a faccia” vi è la presa di coscienza della propria identità.