Il corpo, scorciatoia divina

Saggio di Jean-Pierre Sonnet, gesuita esperto dei rapporti tra letteratura e Scritture

“Poveri noi, quando crediamo che, a forza di concetti, asciutti e astrusi, le cose rinasceranno; poveri noi, quando dimentichiamo la rottura delle acque, gli unguenti e i balsami della nascita”.

Saggio di Jean-Pierre SonnetIn questa frase sta tutto il senso di “La scorciatoia divina”, (Ancora, 169 pagine) di Jean-Pierre Sonnet, gesuita esperto dei rapporti tra letteratura e Scritture. Il corpo è alla radice di questo particolare discorso, la cui portata va oltre quel che è dichiarato nelle sue righe, ma questo è il destino della letteratura, fatta dell’incontro tra detto e spazio bianco, regno del non-detto e delle radici simboliche della nostra stessa esistenza. Il discorso di Sonnet (riportato sia nella veste francese originale sia in traduzione a fronte) si inoltra infatti nel territorio del corpo, spazio non sempre attraversato con benevolenza dalla scrittura cristiana (e non solo cristiana) e da alcune interpretazioni gnostiche e càtare. I “De contemptu mundi” (“Disprezzo del mondo”) medioevali mettevano in luce soprattutto la nascita “colpevole” dell’uomo, inquinata fin dall’origine dalla lussuria. Quest’opera di Sonnet è invece sulla linea francescana della lode dell’esistente, e di ogni creazione, da quella del cosmo a quella dell’uomo, con la messa in rilievo della provvidenzialità dell’azione creatrice di Dio: se ha creato anche la materia, la materia ha la sua positività, a meno che non la si voglia vedere, come facevano i Càtari, come l’azione di un dio malvagio.

“La scorciatoia divina” è la dimostrazione che “quel che è vero per Cristo lo è anche per noi: la scorciatoia divina passa per i nostri corpi, dalla punta dei nostri piedi alla cima della nostra testa, dalla mano destra alla mano sinistra, quando le mani si aprono”. L’autore vuole dire che il corpo è la strada che il creatore ha costruito per comunicare la somiglianza, il sentire, l’andare verso, la seduzione che porta verso l’alto, e non precipita negli inferi: altrimenti non avremmo avuto la Vita Nuova e il Paradiso della Commedia dantesca. E’ una seduzione angelica quella che appare nelle descrizioni del corpo che ci lascia Sonnet, come quando nota che “Nella metro, stamane, sono tutt’occhi per il collo, le pieghe del collo, il tenero inchinarsi degli esseri” che rimanda al piegarsi sui destini mortali dei messaggeri divini colti nel loro apparire dai grandi dell’arte.

Il fascino di questo libro sta anche nel suo legare tra di loro gli elementi della fisicità, facendone un tramite divino sia dal loro inizio, la nascita, sia nel loro compimento finale, per quel suo conciliare principio e fine nel movimento verso l’altro, in una dinamica inarrestabile e ineludibile che attacca ogni tentazione alla resa, all’immobilità passiva e pigra.

L’inesausto movimento del tutto, e quindi del corpo, è qui “tradotto” in immagini verbali assai suggestive, che trovano linfa da tutte le latitudini culturali, ivi comprese quelle delle scienze contemporanee: “Nessuno è l’angelo della propria vita, ma a occhio nudo si scorge talvolta come un curvarsi dello spazio”. La materia che curva lo spazio, prodotto della scienza novecentesca, è qui posta in relazione con l’elemento femminile, sinuoso, mobile, che parla forse più apertamente del “vangelo del nostro corpo” che investe due fisicità, quella della natività e quella della resurrezione, dove, come nota giustamente Sonnet, “anche qui corrono donne”.

Se qualcuno vuole trovare il modo di riconciliarsi con la dimensione della nostra fisicità, senza mai dimenticare la grazia donata al corpo dalla “curvatura” dello spirito, questo libro fa al caso suo.