La guerra non giustifica i venti di antisemitismo

All’errore che da decenni perpetuano israeliani e palestinesi imbracciando le armi per risolvere i loro problemi di convivenza – accrescendo così il numero delle vittime e con esse il dolore e il reciproco rancore -, si aggiungono sentimenti irrazionali, di odio e vendetta, anche in città lontane migliaia di chilometri da Gerusalemme.

Anche le parole possono essere bombe o raffiche di mitra. Lo sperimenta in questi giorni l’Europa intera, dove si moltiplicano insorgenze antisemite di vario livello. Un vento cupo attraverso il Vecchio Continente, alimentato dall’acuirsi del conflitto in Terra Santa. All’errore che da decenni perpetuano israeliani e palestinesi imbracciando le armi per risolvere i loro problemi di convivenza – accrescendo così il numero delle vittime e con esse il dolore e il reciproco rancore -, si aggiungono sentimenti irrazionali, di odio e vendetta, anche in città lontane migliaia di chilometri da Gerusalemme.

Frange pur sempre minoritarie, ma crescenti, dell’opinione pubblica europea, si schierano con una parte o con l’altra, come se si dovesse tifare per due squadre impegnate in un derby calcistico. In realtà in Israele e in Palestina si muore. Per davvero.

In questo quadro si collocano le 70 scritte apparse nei giorni scorsi sui muri di Roma, trasudanti odio verso gli ebrei. Ugualmente vergognosi sono i manifesti, con svastica, inneggianti ai “camerati palestinesi”. Il presidente della Comunità ebraica, Riccardo Pacifici, ha dovuto amaramente commentare: “La mente corre al 1933, quando alcune stelle gialle furono attaccate all’entrata di negozi di proprietà di ebrei”. Quindi un monito: “Non dobbiamo mai abbassare la guardia”. L’odio contro gli ebrei – che sempre più spesso colpisce tutte le altre minoranze, religiose o etniche, gli stranieri come i rom – è un male che accompagna la storia dell’umanità. Ma come tutti i mali va contrastato, senza mai “abbassare la guardia”.

Del resto si tratta di fenomeni presenti in gran parte d’Europa, come innumerevoli indagini hanno posto in evidenza. Per restare all’antisemitismo, si possono ricordare i molteplici attacchi alle sinagoghe, le profanazioni dei cimiteri ebraici, le violenze personali, muri e saracinesche di negozi imbrattati in tante, troppe, città, a ogni latitudine. Senza trascurare le offese ad anziani con la kippah, le vignette satiriche di dubbio gusto, le performance comiche che irridono la fede, la vendita di copricapi ebraici con stampe irriverenti…

La Francia, ad esempio, è costellata da una serie di episodi simili registrati di recente a Parigi, Nimes, Strasburgo, Tolosa. Tanto che lo stesso Pacifici ha affermato: “Roma non può diventare come Parigi, dove gli ebrei sono assaltati, le sinagoghe circondate, e girare con la kippah in testa è un pericolo concreto”.

E come dimenticare l’attentato a Bruxelles del 24 maggio scorso, con una sparatoria al museo ebraico che ha lasciato sul terreno tre vittime. “C’è stata una liberalizzazione del verbo antisemita. Questo è l’inevitabile risultato di un clima che distilla l’odio”, ha commentato a caldo Joel Rubinfeld, presidente della Lega belga contro l’antisemitismo. Erano in corso in quei giorni le elezioni per l’Europarlamento, durante le quali hanno fatto il pieno di voti diverse formazioni nazionaliste con accenti razzisti, xenofobi e anti-immigrati: è il caso del partito antisemita ungherese Jobbik, che ha raccolto il 15% dei voti popolari. E, sempre per restare all’Ungheria, è di queste ore la vicenda del poeta, ed esponente politico di destra, Peter Szentmihalyi Szabo, tra i candidati a diventare ambasciatore del suo Paese proprio a Roma: ma le sue aperte posizioni contro gli ebrei sembrano aver convinto il governo di Budapest a ritirare il suo nome.

In questo triste tour europeo, si riscontrano atteggiamenti ed episodi di egual segno nel Regno Unito, nei Paesi Bassi, in Spagna, in Germania, in alcuni Paesi dell’Est… E se in Polonia l’antisemitismo assume soprattutto le forme di uno stereotipo diffuso, in Danimarca si è ufficialmente giunti tempo fa a suggerire alle persone di religione ebraica di non mostrare in pubblico i simboli della loro fede.

A malintesi retaggi storici si mischiano dunque – come hanno avvertito attenti commentatori e studiosi dei comportamenti sociali – gretti nazionalismi, l’azione di gruppuscoli politici di stampo fascista, ma anche frustrazioni personali che tendono a identificare un nemico contro cui scagliarsi.

Così, mentre il sangue scorre nella Striscia di Gaza e nelle vie delle città israeliane, prendono forma idee e comportamenti che acuiscono – pur a distanza – le divisioni sul campo, laddove occorrerebbero un’azione politica internazionale e un’opinione pubblica mondiale decisamente schierate solo dalla parte della pace e della convivenza di due popoli in due Stati amici e collaboranti. Perché si fa presto ad alzare muri d’intolleranza, mentre occorre, con fatica e determinazione, costruire ancora ponti di speranza.