Gocce di memoria. Un nome dopo l’altro

«All’inizio pensavo che il vescovo mi avesse affidato un onere… invece era un onore». A qualche giorno dalla presentazione, Sabrina Vecchi racconta come è stato svolto il lavoro d’indagine sui caduti nel sisma che ha distrutto Accumoli e Amatrice. Una ricerca che ha poi dato vita alle “Gocce di Memoria” presentate al pubblico il 12 febbraio nella mensa di Torrita

«Ho impiegato due mesi pieni per rintracciare le storie e le vite di tutte le vittime del 24 agosto: è stato un lavoro intenso sia materialmente che emotivamente». A pochi giorni dalla presentazione, Sabrina Vecchi guarda ai passi compiuti con tenacia per tracciare i profili di tutte le persone portate via dal terremoto: «Ho condiviso il desiderio del vescovo Domenico che di ciascuno rimanesse almeno una traccia scritta, fosse anche solo un accenno».

Come si è svolto il lavoro?
Come punto di partenza abbiamo adottato le liste della Prefettura di Rieti. Poi sono andata avanti di nome in nome: cercando di essere fisicamente presente sui luoghi del terremoto, o scandagliando la rete internet. E un po’ alla volta i puzzle hanno preso forma: sono riuscita a ricomporre i nuclei familiari, ad associare i nomi alle professioni. I commercianti, il macellaio, il barbiere, il fornaio li conoscevano tutti, ma decine di nomi rimanevano ancora tali. Per fortuna ho avuto l’aiuto di tante persone: mi sono affidata ai parroci, alle associazioni delle frazioni di Accumoli e Amatrice, ai dipendenti comunali, agli esercenti di qualche chiosco miracolosamente rimasto in attività… e poco alla volta sono riuscita a contattare direttamente chi aveva perso tutto e tutti.

Non dev’essere stato semplice parlare con loro. Qual è stato il passaggio più duro?
Non sapevo come chiedere a un padre che ha perso entrambi i suoi bambini di dirmi qualcosa di loro, dei loro giochi, di come andavano a scuola. Alla fine ho provato a metterci il cuore, ho chiamato e abbiamo pianto insieme. Poi ci siamo risentiti e abbiamo pianto di nuovo.

Cosa hai imparato da queste conversazioni?
Non scorderò mai i genitori che si rimproveravano di non aver comprato al proprio bimbo «quel pacchetto di patatine», o i figli che nell’ultima telefonata con i genitori hanno avvertito «qualcosa di strano nella voce: magari aveva bisogno di me». E non dimenticherò l’anziana signora che non si dava pace per non aver invitato il marito a sgranare il rosario in cucina con lei in piena notte: «Se fosse venuto in cucina a fare il rosario con me, la camera non gli sarebbe crollata addosso». Ho imparato che ogni attimo, ogni gesto insieme agli altri è importante. Soprattutto con gli affetti più cari.

So che alcune informazioni sono arrivate da fonti imprevedibili…
È vero: ad esempio, alcune storie hanno iniziato a prendere forma dai racconti dei soccorritori e dei sanitari dell’ospedale di Rieti. Alcune notizie le ho ricavate dalle automobili trasportate nelle carrozzerie di Rieti: anche quei pezzi di ferro acciaccati e i loro documenti hanno raccontato la vita di tanti. I parenti dei defunti di Roma e provincia li ho trovati quasi tutti tramite associazioni, albi professionali, club calcistici che hanno pubblicato sulle proprie pagine social i necrologi dei loro amici. Una grossa mano l’hanno data anche i giornali del litorale laziale, e poi i sindaci e le scuole: ricordo il preside del Liceo Gullace di Roma, che ha tracciato la figura di Lamberto e di sua moglie, morti in vacanza ad Amatrice, l’Associazione Nazionale Trapiantati che ha ricordato Fabrizio, il loro informatico, e i compagni di scuola di Sergio, quelli di Erika e di molti altri.

Ti è capitato di essere stata cercata a tua volta?
Sì, una volta diffusa la notizia del progetto molti parenti mi hanno cercato perché fosse inserito nel libricino un particolare del carattere, un dettaglio, un aggettivo adatto ai loro cari.

Durante la presentazione hai detto che tra tante lacrime sono stati proprio i familiari delle vittime a farti coraggio…
Mi viene in mente quando il titolare del Bar Rinascimento di Amatrice, che si era abituato a vedermi stazionare nel suo locale con il foglio dei nomi in mano, un giorno mi ha detto: «Quel signore lì ti può aiutare». Era un uomo esile e silenzioso con una giacca da cacciatore. Ho pensato fosse il conoscente di qualche vittima. Mi disse a bruciapelo che aveva perso l’unico figlio di 29 anni e la moglie, spirata nel letto accanto a lui. Lo aveva supplicato di aiutarla, ma lui, immobilizzato dalle macerie, non aveva potuto farlo. Ebbi un fremito. Non sapevo cosa dire, non ero pronta. Mi ha abbracciato dicendomi di non preoccuparmi, mi ha offerto un caffè. Quel caffè con Sergio ha un sapore che non dimenticherò mai: il sapore della dignità e del coraggio.

Qual è l’ultima storia che hai ricostruito?
Ho rintracciato per ultima la signora Anna, che nel sisma ha perso la mamma e la zia, le due persone che mi mancavano per terminare il lavoro. Ero riuscita a scovare l’indirizzo di Roma, ma nessun numero di telefono. Ho chiamato i vicini, gli esercizi commerciali del quartieri adiacenti al suo civico e alla sera la signora Anna si è ritrovata con una decina di sconosciuti al citofono che la pregavano di contattarmi. Quando mi ha chiamata, mentre mi scusavo “dell’invasione” è esplosa in un pianto dirotto: «Signorina, non so cosa vogliate fare delle storie di mamma e zia, ma solo il fatto che io sia stata ricercata con tanta tenacia mi basta a sentirmi amata e non dimenticata». C’è però ancora una storia: l’ho raccolta proprio durante la presentazione. È quella della signora Sofia, di Grisciano. La sua storia ci era sfuggita perché la sua morte è stata registrata dalla Prefettura di Ascoli Piceno e non da quella di Rieti. La traccia è già inclusa nella ristampa del volume.