Giovani reatini e lavoro: tra conflitti e voglia di fare

Secondo l’Osservatorio Giovani, la grande maggioranza dei giovani si dichiara disponibile a lavori manuali, quelli che forse un tempo non avrebbero preso in considerazione. E non è importante che siano coerenti con la preparazione posseduta purché siano discretamente pagati. Realismo, flessibilità, adattabilità caratterizzano la generazione dei millennials italiani. Una disponibilità che però si scontra con i limiti strutturali del mercato che dà poche occasioni, bassa qualità e contratti brevi e precari.

L’Ocse segnala che in Italia il rapporto tra i giovani italiani e il lavoro è sempre più complicato. Le nuove generazioni sono sempre più intrappolate in impieghi “non standard”, precari e senza sbocchi. Non è un problema da poco.

Soprattutto dalle nostre parti, il mercato del lavoro sembra quasi del tutto incapace di offrire occasioni per un impiego stabile e duraturo. Non è raro che i rapporti di lavoro abbiano un orizzonte di tre o sei mesi e in questa situazione la prospettiva si accorcia, i progetti di vita restano sospesi, viene la paura di guardare troppo lontano.

Eppure spesso parliamo di persone preparate e capaci, che non arretrano davanti alle difficoltà. «Oggi bisogna essere flessibili, “multi-tasking”, saper fare più possibile, mettersi in gioco ogni volta, acquisire competenze in tutti i campi», spiega Marina, che finora ha avuto diversi lavori a tempo determinato. Detto in una parola, il panorama occupazionale dei nostri giorni richiede ai giovani di essere “affidabili”, di atteggiamento e in competenze, ma fa davvero poco per rendere affidabili anche i loro percorsi di vita. Volendo ridurre la situazione a una formula un po’ brutale, potremmo dire che, in fatto di lavoro, ai giovani si chiede il più possibile in cambio del meno possibile.

Tra lavoretti e cooperative

Lo spiega bene Luca, che a 19 anni frequenta ancora la scuola, ma deve anche lavorare per dare una mano alla propria famiglia. Attualmente è occupato in una cooperativa di quelle che girano attorno ad Amazon. «Veniamo pagati di meno rispetto a quello che avremmo dovuto prendere. Facciamo undici ore di lavoro e prendiamo 6 euro l’ora, più o meno, e sono pochi rispetto al tipo di attività che facciamo. Purtroppo le cooperative funzionano così, devono risparmiare in tutto, anche su chi lavora, e quando hai la necessità di lavorare ti adegui». Anche perché la capacità di avanzare rivendicazioni sembra ridotta al minimo: «forse sarebbe possibile chiedere un euro di più tutti insieme, ma non lo abbiamo fatto», aggiunge Luca, lasciando trasparire il senso di solitudine che si accompagna alla mancanza di tutele.

Un conflitto tra generazioni

Forse, come scriveva tempo fa il «Corriere della Sera», l’Italia è «un paese per i vecchi», nel quale i giovani sono destinati a essere sempre più poveri e senza lavoro: in trent’anni, rispetto ai propri genitori, hanno perso sempre più terreno quanto a reddito e tutele. Si potrebbe parlare di una guerra tra le generazioni, ben evidente nella disparità dei salari e, in prospettiva, delle pensioni. Ma se è vero che la vittima per eccellenza della crisi economica è nella fascia di età tra i 20 e i 30 anni, è altrettanto vero che i lavoratori più maturi non se la passano troppo bene. Non è raro che la riduzione di tutele e salari per le nuove generazioni si traduca per chi ha passato la giovinezza in una forma tutta particolare di concorrenza. È vero che in situazioni di crisi chi lavora già da tempo mantiene ammortizzatori sociali e diritti acquisiti, ma sul mercato del lavoro viene spesso preferito a chi può prestare la propria opera attraverso le nuove forme contrattuali. Un paradosso se si pensa che questi “lavoretti” costringono non pochi trentenni ad appoggiarsi alla pensione dei nonni.

La zona grigia tra formazione e lavoro

«Oggi ci sono tante possibilità per far lavorare senza offrire un contratto a tempo indeterminato» nota Gabriele, un padre di famiglia, disoccupato, che un tempo lavorava all’Alcatel. Si può avere personale senza doverlo mai assumere in maniera diretta grazie a un’ampia serie di possibilità che paiono occupare una zona grigia tra la formazione e il lavoro vero e proprio. Lo spazio un tempo circoscritto dall’apprendistato, oggi sembra essersi allargato in un’area dai contorni poco definiti, all’interno della quale si tira avanti tra Garanzia Giovani, tirocini, stage, contratti di collaborazione e contratti interinali.

Un mondo cambiato

«Prima si assumeva molto di più», ricorda Gabriele. «Quando mi sono diplomato, alla fine degli anni ‘80, il lavoro c’era, ce n’era tanto nella nostra zona, forse perché avevamo l’aiuto della Cassa del Mezzogiorno, cioè sovvenzioni statali, agevolazioni, sgravi fiscali. Soprattutto il nostro nucleo industriale era ricco e pieno di lavoro. Chi si diplomava nel settore tecnico e tecnologico aveva tante possibilità di lavorare e fare carriera». Ma il mondo è cambiato: «oggi il lavoro non c’è, sovvenzioni da parte dello Stato e finanziamenti sono scarsi e le grandi aziende preferiscono guardare a luoghi come la Cina, i Paesi Balcanici e l’India». Aree del pianeta in cui il basso costo della manodopera, l’assenza di sindacati e la mancanza di tutele, anche ambientali, permette alle imprese di aumentare i profitti e ridurre le spese in modo quasi esponenziale. Quando si parla di eccessivo costo del lavoro, si finisce talvolta a mettere in contraddizione occupazione e tutele, ma di fronte a questo scenario viene il sospetto che il vero conflitto è sia tra profitto e diritti.

Una forza centrifuga

In questo contesto, la particolare situazione italiana vive dinamiche particolari, e Rieti sembra quasi una lente d’ingrandimento attraverso cui osservare il paese. Se ai tempi di Gabriele bastava il diploma per lavorare, oggi si fatica a trovare un impiego pure con un master. Il tessuto produttivo è infatti scarsamente innovativo e risulta poco adatto alle competenze e alle energie di tanti giovani sulla soglia del mercato del lavoro. Nonostante la voglia di emergere, molti “under 30” rinunciano a trovare il lavoro dei loro sogni, accompagnati dal senso di realtà verso lavori sottopagati e non allineati con i loro studi, pur di sfuggire alla dipendenza dalle famiglie. Lo spiega bene Alessandro Rosina, professore associato di demografia all’Università Cattolica di Milano, parlando del «divario sempre più ampio tra i desideri e la possibilità di realizzarli» che esiste nel nostro paese. «Sogni e progetti di vita vengono per il momento congelati nella speranza che qualcosa prima o poi cambierà», ma non è raro, soprattutto per i meno istruiti, finire nella spirale negativa di una prolungata condizione di inattività. Quanto ai giovani più formati, sono spinti dalla situazione ad andare verso paesi in grado di valorizzare al meglio le competenze acquisite. Anche se la “fuga dei cervelli” è poco più di un mito, in troppi preferiscono cercare un lavoro fuori dalla nostra città, o dal nostro paese, piuttosto che restare e vedere deteriorare le proprie competenze. Di contro, c’è anche chi non rinuncia ai sogni: Luigi alterna la scuola con il servizio civile: «spero che i giovani non smettano mai di lottare per quello in cui credono, perché un vincitore non è altro che un sognatore che non ha mai smesso di crederci. Ho studiato musica e continuo a farlo, vorrei diventare un musicista e non abbandonerò il mio sogno. Nel frattempo faccio qualche lavoretto per mantenermi». «Per i neolaureati – dice Gianmarco, un ragazzo che sta ancora frequentando l’università – il problema è che le imprese italiane non investono su di loro, preferendo cercare personale con più esperienza». Un atteggiamento che rischia di generare un circolo vizioso, nel quale nessuno riesce a farsi le ossa ed inserirsi.

Mettersi in proprio

Dato il contesto, avere un lavoro è considerato un successo di per sé. E dove le possibilità di impiego scarseggiano aumentano i giovani che decidono di mettersi in proprio. Anche se manca la vocazione imprenditoriale, si fa strada la necessità. Lorenzo, 21 anni, ha intrapreso un’attività con l’aiuto dei suoi genitori da quasi due anni: «Un anno dopo essermi diplomato presso l’istituto alberghiero Costaggini di Rieti, ho aperto un bar e attualmente le cose vanno discretamente. Sono molto felice perché il mio sogno si è avverato: lavorando sto bene con me stesso e faccio stare bene i clienti». Anche Giorgia, 23 anni, ha aperto da poco un negozio di estetica a Piazza Tevere. «Mi sento molto soddisfatta di aver aperto questa attività – ci dice dal “Beauty for you” – è un grosso investimento, fatto ovviamente grazie a tutta la mia famiglia, dal quale spero di riuscire ad ottenere più risultati possibili». Le difficoltà, ovviamente, non mancano. A pesare su un’impresa appena avviata c’è un regime fiscale piuttosto pesante, ma Giorgia non si scoraggia: «c’è comunque una crescita personale, perché già “ti metti avanti” e vedi quello che ti spetta durante il corso della vita». Non è vero, insomma, che i giovani non vogliono imparare. Gli manca forse qualcuno in grado di insegnare loro un mestiere come si deve, invece di essere messi da parte a non fare nulla o essere costretti a tirare avanti a forza di compromessi al ribasso.