I giovani agricoltori in Italia sono una realtà. Certo, non è possibile dire che l’agricoltura del Paese sia “giovane”, ma la presenza di un numero significativo di imprese condotte da coltivatori sotto i 35-40 anni di età, è certamente un fatto notevole. Che poi queste siano fra le unità produttive meglio gestite, più produttive e innovative, è una constatazione che ha ormai quasi dell’ovvio.
Eppure, molto spazio è ancora a disposizione delle nuove leve agricole, la cui presenza non nasconde l’essenza vera – fatta anche di fatica -, del lavoro nei campi.
L’occasione per ragionare di giovani in agricoltura, è arrivata con l’ultimo Rapporto Svimez sull’utilizzo delle risorse comunitarie relative ai Piani di sviluppo rurale (Psr) del periodo 2014-2020 nelle regioni del Sud. I numeri dicono tutto.
Nel Mezzogiorno 22mila giovani sotto i 40 anni hanno presentato domanda per l’insediamento in agricoltura. In Italia – secondo una stima Coldiretti -, sarebbero invece già 57.621 le imprese agricole “giovani”. Un dato importante e in crescita, che colloca il nostro Paese al primo posto in Europa, soprattutto tenendo conto delle caratteristiche di queste imprese.
Le aziende agricole condotte dai giovani possiedono una superficie superiore di oltre il 54% alla media, un fatturato più elevato del 75% della media e il 50% di occupati per azienda in più; il 70% di esse può essere definito multifunzionale, cioè dedito a più attività produttive che hanno nell’agricoltura il loro radicamento.
Leggendo questi numeri, tuttavia, occorre fare attenzione ad almeno due aspetti della situazione. Fare agricoltura non è cosa facile per un giovane. Prima di tutto perché davvero il lavoro nei campi e nelle stalle continua ad essere pesante e difficile. Occorre essere molto chiari. Il lavoro nell’agricoltura moderna – pur con tutte le tecnologie del caso -, continua ad essere un mestiere fatto di fatica e di polvere, di alzatacce all’alba, senza orario, un lavoro che deve fare i conti con grandi rischi (basta pensare agli effetti del maltempo) e con i tempi lenti delle produzioni agricole.
Davvero l’immagine bucolica che del settore ogni tanto viene ancora proposta, è piuttosto lontana dalla realtà. Eppure, quello dei campi e delle stalle è un mestiere che attrae – e con ragione – le nuove generazioni. Che, tuttavia, devono anche confrontarsi con altre difficoltà. Basta pensare, per capire, proprio a quanto rilevato da Svimez: più di 3 richieste di insediamento giovanile su 4 (il 78%) non sono state al momento accolte per colpa degli errori di programmazione delle Amministrazioni regionali. Lo ha detto anche Coldiretti che giustamente ha subito rilevato come vi sia il “il rischio concreto di restituzione dei fondi disponibili a Bruxelles”.
Burocrazia, scarsa fiducia del sistema del credito, freni generazionali, necessità di forti investimenti iniziali e di una formazione adeguata, bizze dei mercati. E’ da questi condizionamenti che passa quindi la presenza dei giovani in agricoltura e, tutto sommato, anche buona parte del futuro del settore stesso.
E hanno ragione i coltivatori diretti a dire che il fallimento della presenza dei giovani nei campi significherebbe non solo l’infrangersi di un sogno lavorativo per le nuove generazioni, ma anche una sconfitta per il Paese che perderebbe (e già sta perdendo) “opportunità strategiche per lo sviluppo in un settore chiave per la ripresa economica, l’occupazione e la sostenibilità ambientale”. Una prospettiva che va rigettata sia per il Mezzogiorno che per il Nord dello Stivale. Il rischio non è solo il ritorno di un’agricoltura “vecchia”, ma anche il vivacchiare di un’agricoltura “di mezza età”.
Dal Sir. Andrea Zaghi