Ex camionista in miseria: «Ho smesso di guidare perché potevo uccidere»

Ultraquarantenne barese decide di abbandonare l’impiego per sottrarsi allo sfruttamento e al rischio connesso con i turni di lavoro massacranti (anche due consecutivi). Con il pericolo di investire qualcuno per un colpo di sonno. Così Marco (nome di fantasia) si è autocondannato alla povertà. Ha venduto tutto quello che aveva. Oggi fa la fila alla Caritas e si vergogna, ma non smette di sperare.

Ogni volta che si incrociano storie di disoccupazione, di fame, di caduta nel baratro della miseria e dell’abbandono sociale non si può non rimanere toccati. Perché di tragedia si tratta. E diventa ancora più profonda la sofferenza se si è costretti a scegliere tra il vivere ai margini della società oppure rischiare la vita, sottostare ai ricatti lavorativi del “capo” e rischiare di contravvenire gravemente alla legge. Con questo dilemma si è dovuto scontrare Marco (nome di fantasia che gli garantisce privacy e sicurezza), camionista quarantatreenne della provincia di Bari. A Marco venivano imposti tempi di lavoro massacranti, fino a quindici ore consecutive al volante del suo articolato, in giro per la Puglia con il serio rischio di far male a sé stesso ma anche agli altri automobilisti. Ad un certo punto non ce l’ha fatta più e ha rassegnato le dimissioni. Ora, da quasi un anno, è disoccupato, vive in una piccola casa da solo, senza corrente elettrica, senza gas e cercando di ottenere un pasto caldo alla mensa della Caritas.

Il lavoro o la vita.

“Il lavoro era davvero massacrante – ci racconta – e il rischio era di farmi seriamente del male o, peggio, di uccidere qualcuno. I miei orari andavano, generalmente, dall’una di notte fino a mezzogiorno, ma capitava di andare oltre il pomeriggio. Io so che per legge i camionisti possono guidare per massimo nove ore di fila e se la polizia ti ferma e vede, dai documenti che abbiamo che, sei al volante da più tempo sono guai seri”. Guai che i datori di lavoro scaricano volentieri sul conducente perché, per ovvi motivi, non ammetteranno mai di essere stati loro a imporre una tabella di marcia così lunga. “Capitava anche, meno frequentemente ma capitava, che il mio datore mi chiedesse di fare due turni di lavoro di seguito: significava guidare dalla notte prima fino alla sera successiva. E non puoi rifiutarti perché sennò i rapporti con i tuoi colleghi e col tuo capo diventano tesi fino a ricattarti con la minaccia del licenziamento”. E allora che fare? Dopo pensamenti e ripensamenti, dopo tante discussioni Marco decide di licenziarsi. “La paura di addormentarmi al volante era tanta. Ogni volta che accendevo il camion pregavo la Madonna che mi portasse sano e salvo a destinazione. La mia paura più grande era di poter fare del male a qualcuno”. Per il datore di lavoro non c’è alcun problema: licenziatosi Marco si trova subito un sostituto pronto a fare quello che lui non voleva più fare. Ma per Marco le cose si mettono male: senza stipendio la vita è dura. il nostro protagonista addio stivivere senza uno stipendio la vita diventa una lotta quotidiana.

Provare a ricominciare è difficile.

Così Marco si dà da fare, bussa alle porte di tante aziende, invia curriculum, chiede a chiunque conosce se sanno di opportunità di lavoro. Ma la crisi è lontana dal concludersi e moltissime sono le aziende che chiudono i battenti o diminuiscono il personale. Così il tempo vola e i soldi della liquidazione e dei risparmi finiscono. “Ad un certo punto non avevo più niente, neanche i soldi per pagare le bollette. Ho provato a vendere di tutto: la mia macchina, il camion con cui lavoravo, i gioielli dei miei defunti genitori, i miei dischi, persino i mobili. Ma sono bastati per un altro mese. Ho chiesto solo una volta aiuto ai miei parenti, ma anche loro non vivono nella ricchezza e perciò non ho voluto diventare un peso morto per loro”. La vita del nostro amico allora diventa un vagare da una mensa all’altra, guadagnare pochi euro (in nero) da lavoretti giornalieri. Cose da poco che per un ultraquarantenne non garantiscono nulla. “Ma quello che mi fa piangere di notte è il sentirmi un rifiuto della società. Quando non puoi permetterti il ‘lusso’ di lavarti più volte al giorno – sorride amaro – la gente ti scansa, ti guarda come se fossi più insignificante di un sasso. Non mi interessa il giudizio di chi non mi conosce. Sono gli amici che non vuoi che ti vedano così. Non ho un telefono, un televisore, in casa ho solo un letto, un tavolino, un piccolo armadio e qualche sedia. Non posso sempre chiedere di offrirmi da bere, una pizza o anche una sigaretta, mi sento male nel farlo e allora preferisco rimanere a casa da solo”.

La speranza esiste?

“Si lavoretti ne ho fatti in questo periodo. Scaricatore, magazziniere, aggiustatutto, ho provato anche col volantinaggio ma alla fine non ti assumono mai. Preferiscono sempre gli altri. Però non perdo la speranza. So di essere in grado di fare di tutto e voglio lavorare, voglio dare un senso alle mie giornate e, chissà, tra qualche anno mi guarderò indietro e vedrò questo periodo solo come una piccola parentesi della mia vita”.