No a Europa e profughi, sì a confini e “identità”. La nuova destra alla conquista del vecchio continente

Il successo elettorale di Alternativa per la Germania ha messo in luce il successo crescente di forze nazionaliste, euroscettiche e contrarie ad accogliere gli immigrati. Si va dalla Francia ai Balcani, dalla Scandinavia al Belgio, passando per Polonia, Italia e Ungheria. Il caso britannico e la “diversità” iberica. Difficile riscontrare un progetto comune, ma certamente tutti i leader hanno grandi capacità comunicative e “pescano” consensi tra giovani e anziani

Se ne trovano a nord come a sud, a est non meno che a ovest. Sono differenti tra loro e, per questo, non vanno d’accordo; per ora, infatti, non costituiscono un blocco politico compatto (neppure all’Europarlamento, dove contano un buon numero di seggi). Alcuni si trovano al governo del loro Paese, o almeno sono l’ago della bilancia delle politiche interne; in altri casi costituiscono un’opposizione sociale, dura e reattiva. Godono della simpatia di ampia parte dell’elettorato e spesso sono alimentati dai media. Hanno scalzato – in quanto a tratti populisti e successi nelle urne – i rivali di sinistra, individuando un comune “capro espiatorio”: l’Unione europea. Sono i partiti di destra, più o meno estrema, che crescono esponenzialmente nell’Europa solcata da crisi e paure diffuse.

 

Successo inarrestabile? Le recenti elezioni del piccolo land tedesco Meclemburgo-Pomerania hanno avuto eco continentale: il partito di Frauke Petry, Alternativa per la Germania, ha oltrepassato il 20% dei consensi, superando di poco la Cdu di Angela Merkel. Un voto regionale che ha ovviamente un peso relativo nello scenario politico tedesco ed europeo, ma che ha assunto un valore simbolico perché è parso erodere le fondamenta del potere della cancelliera cristiano-democratica. Così hanno esultato, assieme a Petry, i massimi leader nazionalisti, anti-Ue e anti-immigrati dell’Europa intera, dalla francese Marine Le Pen al britannico Nigel Farage fino all’ungherese Viktor Orban. Capifila, questi, di partiti che lievitano in un rapporto di causa ed effetto con l’avvento della globalizzazione, le ricadute della recessione economica, l’arrivo in gran numero di immigrati da Africa e Medio Oriente, gli attentati che sconvolgono il “sogno” occidentale. Temono sia l’islam che i musulmani, facendo costante confusione da profughi e terroristi.

 

Leader carismatici. Tutti i leader di queste formazioni sono carismatici e abili nel manipolare slogan, parole e coscienze. Le sigle dei partiti della destra estrema confondono il significato delle parole e in vari casi inglobano nel nome termini come “solidarietà”, “democrazia”, “progresso”. Qualcuno “vanta” persino un dna cristiano.

Qual è il loro progetto politico? Difficile individuarne uno, ma si possono evidenziare tratti ricorrenti:

no all’Europa, no all’islam, no ai profughi, no alla finanza senza anima né confini. Sì a confini e muri, sì a una evocata – più che coltivata – identità locale, regionale o nazionale. Fanno breccia in tutti gli strati di popolazione, specie tra i giovani e gli anziani, e nelle fasce sociali che hanno subito i maggiori effetti della crisi economica.

 

Tour europeo. È impressionante la geografia politica con questi caratteri. In Germania si va dagli euroscettici e no-stranieri di Alternative für Deutschland (che guarda con ottimismo alle politiche del prossimo anno), alla xenofobia conclamata del Nationaldemokratische Partei Deutschlands. In Francia regna incontrastato il Front National di Marine Le Pen, in cerca di un maquillage in vista delle presidenziale 2017. Nel Regno Unito c’è l’Ukip, partito indipendentista, che si può ritenere il vero vincitore del referendum di giugno sul Brexit. Tra i grandi Paesi, l’Italia mostra un quadro meno definito, ma certamente la Lega nord di Salvini e Maroni si può iscrivere a questa area politica, alla quale aggiunge qualche specificità regionale e federalista. Il tour europeo fra i partiti nazionalisti e di destra non ha praticamente coni d’ombra anche se si può rilevare come la penisola iberica mostri angolature originali (semmai prevalgono, in Spagna, alcune forti spinte indipendentiste, come in Catalogna). Così nei Paesi Bassi ha grande seguito il Partij voorde vrjheid (Partito della libertà), che sostiene l’orgoglio e la superiorità fiamminga, guidato da Geert Wilders. In Belgio figura il Vlaams belang, ossia “interesse fiammingo”, che invoca la secessione dalla Vallonia francofona.

 

Di governo e di lotta… In alcuni Paesi formazioni più o meno estreme siedono ai banchi del governo: i casi più noti riguardano la Polonia (Diritto e giustizia, conservatore ed euroscettico, fondato dai gemelli Kaczynski, al potere con la premier Szydlo e il presidente Andrzej Duda) e l’Ungheria (il partito Fidesz, premier Viktor Orban). In Austria il 2 ottobre i cittadini saranno richiamati alle urne per il ballottaggio delle presidenziali perché il voto del 22 maggio è stato annullato: a contendersi la poltrona più alta della repubblica alpina ci saranno l’indipendente ex verde Alexander Van der Bellen e il populista del Partito della libertà Norbert Hofer. In Grecia Alba Dorata ha fatto sponda, da destra, all’ascesa del leader di sinistra Alexis Tsipras e al suo partito Syriza. La carta geografica nazionalista tocca, più o meno con eguale intensità, le repubbliche baltiche come i Balcani. In vari Stati è apparso, e poi scomparso, il Partito pirata. La nuova destra ottiene notevoli risultati in Finlandia (Veri finlandesi), Svezia (Democratici svedesi), Norvegia (Partito del progresso), Slovacchia (Libertà e solidarietà), Danimarca (Partito del popolo danese), Romania (Grande Romania), Bulgaria (Unione nazionale). E, pur con tratti assai differenti, sconfina oltre l’Ue, in Svizzera, Turchia, Russia, Ucraina… Una “marea” che, al momento, dilaga lenta ma inesorabile.