Incontri

Eraldo Affinati incontra i docenti: «La scuola deve asciugare le lacrime e risanare le piaghe»

L’incontro reatino con il docente e scrittore Eraldo Affinati, presentato dal dirigente dell'ufficio scolastico provinciale Lorenzini che sta per congedarsi dal mondo della scuola

L’incontro con Eraldo Affinati ha voluto essere per lui un po’ il suo congedo dalla scuola, ora che sta per andare in pensione. Il dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale Giovanni Lorenzini, nell’introdurre il pomeriggio di conversazione con il docente-scrittore che ha dato vita insieme a sua moglie all’esperienza della “Penny Wirton” (la scuola gratuita di italiano per immigrati che da Roma si è replicata con diverse sedi in varie parti d’italia), ha inteso così concludere la sua storia di uomo di scuola che, dopo gli anni da insegnante e da capo d’istituto, lo ha portato a dirigere quello che era una volta il Provveditorato agli studi, coordinando la vita scolastica della provincia sabina.

«Mi sono detto: la mia vocazione pedagogica è nata negli anni Settanta, in un doposcuola che si faceva tra le baracche dell’acquedotto Felice dove un prete visionario, don Roberto Sardelli, sull’esempio di don Milani lavorava con i più poveri. Oggi conosco Eraldo che lavora con i ragazzi più difficili. Ho voluto che questo percorso professionale scolastico si chiudesse con lui, con il messaggio che lui ci dà. Spero che questo momento sia di crescita per tutti, che usciamo più rafforzati, più rincuorati nel nostro compito: è l’educazione che salva il mondo. Come scuola abbiamo un grande compito, noi possiamo dare prospettiva, senso di crescita, senso di futuro a questa società, ai nostri ragazzi, al mondo intero».

I nostri ragazzi, ha detto Lorenzini, «hanno un bisogno tremendo di maestri, di adulti che siano modelli di riferimento, che siano interlocutori autorevoli per loro, capaci di portare avanti un dialogo umano». E l’esperienza di Affinati, che già era venuto alcuni mesi fa a Rieti per parlare alla scuola “Pascoli” del suo libro su don Milani e che stavolta ha firmato varie copie della sua ultima pubblicazione, Via dalla pazza classe, a tanti docenti reatini che hanno raccolto l’invito a questo pomeriggio con lui, è stata un’occasione per riflettere sul lato profondamente umano dell’istruzione e sull’urgenza educativa che interpella oggi la società: nelle riflessioni legate alla sua esperienza, infatti, «lo sguardo di Eraldo – ancora parole di Lorenzini – si innalza e affronta le tematiche fondamentali, le sfide vere dell’educazione, il lavoro che si trova davanti la scuola, spesso con difficoltà».

Dietro la scelta di lavorare con ragazzi difficili, ha confessato lo scrittore alla platea raccolta nell’aula magna della Sabina Universitas ai “geometri”, c’è anche la sua storia familiare: mamma scampata ai lager nazisti (nel suo Campo nel sangue aveva raccontato il viaggio, insieme a un amico poeta, che fece fino a Auschwitz, quello che sua mamma, figlia di partigiano catturato dalle SS, riuscì a evitare fuggendo dal treno), padre orfano, figlio illegittimo illegittimo abbandonato… «Mi sono rivolto ai ragazzi difficili, perché vengo da tale situazione familiare. Quando chiedevo ai miei di dare notizie di quello che avevano vissuto le loro risposte non potevano essere soddisfacenti come avrei voluto, non possedevano il linguaggio, la capacità di elaborare l’esperienza vissuta, proprio come tanti immigrati di oggi, come tanti ragazzi di oggi. Essere cresciuti in quella dimensione sicuramente ha determinato l’inquietudine della mia adolescenza: non mi sentivo bene a scuola, sin dall’inizio percepivo il sistema scolastico come qualcosa di artificiale, convenzionale, astratto. Entrato a scuola come insegnante ho cercato di guarire una ferita innanzitutto mia e poi ritrovata nei ragazzi che avevo davanti, per questo spesso insegnato lettere negli istituti professionali, che erano difficili, spesso bocciati, che dovevo conquistare momento per momento», rendendosi così conto «che la scuola deve asciugare le lacrime e risanare le piaghe».

Nella sua esperienza di educatore, alcuni snodi importanti, come l’insegnamento alla città dei ragazzi fondata da monsignor Abbing, basata sul metodo dell’autogoverno. Il prete irlandese, ha spiegato Affinati, «non aveva l’idea di fare un orfanatrofio ma appunto una città governata dagli stessi ragazzi…come se loro, provenienti da storie difficili, dovessero ricostruire la loro identità».

All’inizio erano orfani e ragazzi di strada italiani, «poi, quando arrivai io, erano poi tutti stranieri. E ognuno mi chiamava a un rendiconto: non potevi limitarti a insegnare facendo lezione e mettendo un voto, nel momento in cui vedevi ragazzi giunti da tutto il mondo in modi rocamboleschi, ognuno era uno specialista del distacco, un tecnico del lutto (molti avevano perduto i genitori), ti rendevi conto che tu insegnante eri un padre per questi giovani».

E da questa esperienza sono nati altri libri, due dei quali resoconti dei viaggi fatti in Marocco e in Gambia, su invito di suoi ragazzi che lo avevano stimolato ad andare a conoscere le loro radici…

Poi, una volta tornato a Roma, «con mia moglie, anche lei insoddisfatta della scuola come era vissuta, abbiamo maturato l’idea di creare uno spazio in cui ragazzi stranieri possano avere un supplemento di istruzione solo sulla lingua italiana, in cui imparino a leggere e pensare. La lingua è la casa del pensiero: se non hai competenza verbale ti trovi in disabilità spirituale». Iniziarono – ha raccontato Affinati – solo in quattro insegnanti, nei piccoli spazi messi a disposizione dai gesuiti di San Saba all’Aventino.

«Pian piano siamo cresciuti. Aumentavano i volontari e aumentavano gli immigrati. Ed era sorprendente vedere queste persone diversissime, chi spinto da motivazioni religiose, chi da un’idea politica, chi magari per superare un momento di depressione, si trovassero unite in un’azione di gratuità che è l’insegnamento dell’italiano» a giovani venuti da chissà dove, in chissà quali modi, con chissà quali sofferenze alle spalle.

E, cosa ancora più bella, riuscendo a coinvolgere anche tanti giovani italiani, studenti che vengono a insegnare a loro coetanei stranieri, «non solo quelli che lo fanno per l’alternanza scuola lavoro, ma anche tanti che spontaneamente decidono di venire da noi, a fare volontariato». E vedi pure il ragazzo «che magari al mattino a scuola è ribelle trasformarsi al pomeriggio in pedagogo».

Tutto ciò diventa uno stimolo per chi fa scuola: «ci fa pensare che il sistema lezione-spiegazione-voto non può più funzionare. Alla lezione frontale, che pure è giusto che resti, occorre affiancare altre azioni». E per far questo, per Affinati «va creata una sorta di avventura conoscitiva, devi un po’ forzare le istituzioni, altrimenti rischi di cadere nella finzione pedagogica».

Un docente deve essere spinto a interrogarsi: «Anche quelli che vanno bene, fino a che punto sono stati cambiati dalle nostre lezioni? Fino a che punto la scuola ha acceso la passione in loro?».

L’esperienza della “Penny Wirton” punta a «realizzare una esperienza integrale della vita». Interessante che, in qualche città, questo tipo di attività è stata realizzata dentro scuole statali: le scuole di italiano per stranieri «ospitate in istituti pubblici, aprendo le loro classi agli immigrati e portando i loro studenti a insegnare a questi ragazzi. Molti ragazzi e molti docenti vengono da noi per vedere come funziona. Io chiedo spesso a questi ragazzi di scrivermi dei testi in cui poter annotare le loro impressioni. Una diciassettenne dice di avervi trovato “l’amore per il futuro”».