Elogio della riconoscenza

“La misura di ogni felicità è la riconoscenza”: provate ad indossare una maglietta con questo aforisma e vi accorgerete che è tutt’altro che facile da sostenere. La frase – attribuita a Chesterton, scrittore e apologeta che ha fatto dell’arguta sentenza un’arma pacifica del suo argomentare – chiede di essere ambientata nella caleidoscopica arena della famiglia

“La misura di ogni felicità è la riconoscenza”: provate ad indossare una maglietta con questo aforisma e vi accorgerete che è tutt’altro che facile da sostenere. La frase – attribuita a Chesterton, scrittore e apologeta che ha fatto dell’arguta sentenza un’arma pacifica del suo argomentare – chiede di essere ambientata nella caleidoscopica arena della famiglia.

La riconoscenza a cui è legata la felicità necessita della capacità di saper guardare a quanto si è fatto con onesta soddisfazione. Chi crede può essere grato a Dio e poi ai fratelli, ma tutti – mi pare – per essere felici, al momento di una valutazione, dovrebbero essere grati a se stessi per quello che sono riusciti a fare.
Se mai ci fosse una stagione che non sia di verifica fra le mura domestiche, certo fra maggio e giugno il dovere (o la tentazione) di fare un bilancio è indotto dal convergere alla conclusione di tanti percorsi in coincidenza della fine dell’anno. Il commercialista chiede la documentazione per gli sgravi nella dichiarazione dei redditi e non si può non ricordare quanti passaggi dal medico si è fatti, nel corso dell’anno, quanto si è avuto a che fare con la salute… Se si può farlo serenamente, quasi sempre vuol dire che se ne può essere riconoscenti con qualcuno, a partire dal Principale con la p maiuscola.

Poi si conclude l’anno lavorativo e se minimamente vi sono soddisfazioni, individuali o di squadra, è auspicabile che oltre all’agognata meta delle ferie, vi sia anche il riconoscimento reciproco dei risultati raggiunti: la capacità di guardare indietro alla strada fatta per darsi slancio nel prosieguo della salita. Non rimpianti, ma sproni e questo – se possibile – a prescindere dai bilanci strettamente economici.

Terminano anche tutte le attività sportive, più o meno agonistiche e “gli impegni ricreativi…”, le settimane pullulano di saggi, prove finali, spettacoli e rappresentazioni di fine anno. Lacerti di poesie, passi di ballo o brani smozzicati di canzoni trapelano, più o meno consapevolmente, dai ripassi dei giovani candidati e occupano i backstage casalinghi dei giorni precedenti spoilerando benevolmente la sorpresa degli (im)pazienti genitori.
Finisce anche – seppur per poco – l’impegno di chi vive il suo essere cristiano nella comunità parrocchiale… commissioni, verifiche, ritiri conclusivi e consigli pastorali… la bella stagione li induce pur se l’anno pastorale avrebbe un suo diverso calendario e anche in questo ambito si vive un tempo di bilanci in cui la riconoscenza e la gratitudine dovrebbero sempre avere la precedenza su lamenti o preoccupazioni.

La comunità – scrive il Papa in Evangelii Gaudium, 24 – deve saper anche “fruttificare”: “È sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano, non ha reazioni lamentose né allarmiste. Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente siano imperfetti o incompiuti. […]. Infine, la comunità evangelizzatrice gioiosa sa sempre ‘festeggiare’. Celebra e festeggia ogni piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione”.

Ma rimettendo la lente sulle nostre case è inutile, negare che, più di ogni altro, questo tempo, per chi ha dei figli ancora in età scolare appunto, sia quello della conclusione di un anno di scuola, il tempo della trepidazione per quelle che mi permetto di chiamare ancora pagelle. Gli ultimi compiti in classe, le verifiche, le interrogazioni… Un’insufficienza recuperata all’ultimo, un’altra che rimarrà da riparare a settembre: i racconti a tavola si infarciscono di numeri, voti e giudizi che i figli portano a casa. Come dal cappello a cilindro di un prestigiatore, estraggono con gli occhi lucidi i loro successi sperando nella reazione dei genitori che ancor più li esalti e gratifichi. Al di là di quando non è solo idilliaca la situazione – e forse agli insuccessi scolastici bisognerebbe dedicare un pezzo apposta – nell’applaudire la prole per i risultati raggiunti, nel brindisi ideale che sempre dobbiamo essere pronti a fare coi nostri figli, con l’invito alla riconoscenza, al rispetto degli altri, forte mi risuona un monito da trasmettere alle nuove generazioni per bandire già dai primi anni di vita la corsa alla competizione: “Non dobbiamo essere i migliori; dobbiamo essere migliori”.