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Ecco la cinquina finalista del Premio Campiello

La giuria del premio sceglie i finalisti. Fra i temi dominanti la famiglia, le migrazioni, i sentimenti. La pandemia resta fuori dal gioco

Votata a Padova la cinquina della 60ª edizione del premio Campiello: Antonio Pascale, La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini (Einaudi); Fabio Bacà, Nova (Adelphi); Daniela Ranieri, Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie); Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti (Sellerio); Elena Stancanelli, Il tuffatore (La nave di Teseo). Pascale è entrato in cinquina (con 7 voti) al primo scrutinio, Bacà (con 8 preferenze) alla terza votazione, Ranieri (con 7) alla quinta, mentre ci sono voluti ben 8 scrutini per l’ingresso di Zannoni (con 8 voti) e per Stanacanelli (che ha ottenuto 7 voti) si è dovuti giungere, dopo 10 votazioni. Premio opera prima a Francesca Valente per Altro nulla da segnalare (Einaudi). A decidere il super-vincitore del premio di Confindustria Veneto sarà una giuria popolare di 300 lettori. La cerimonia di premiazione avrà luogo a Venezia, al Teatro La Fenice, sabato 3 settembre.

A differenza di altri premi letterari, il Campiello è particolarmente interessante perché la votazione della giuria dei letterati, presieduta quest’anno da Walter Veltroni, avviene in pubblico (ormai da diversi anni nell’aula magna dell’Università di Padova) ed è preceduta dalla discussione dell’annata letteraria. Una discussione che offre sempre spunti di riflessione utili a disegnare una cartografia critica della nostra narrativa.

Ieri è stata Daria Galateria a tracciare un quadro sintetico delle tendenze in atto. Notando che quest’anno abbiamo davanti a noi libri che sono stati scritti durante il confinamento della pandemia e che purtroppo ci troviamo a leggere in tempo di guerra, si potrebbe temere un effetto di pessimismo e di claustrofobia (soprattutto nella fase della scrittura, naturalmente), che però non sembra essersi verificato.

Tra i temi più gettonati da romanzi e racconti troviamo la famiglia, forse per la sua crisi nella società in cui viviamo, famiglia però rappresentata non necessariamente in termini negativi, anzi spesso con toni elegiaci, magari corretti da dosi di umorismo e perfino di comicità. In termini più seri compare il motivo della migrazione, con il carico di drammaticità che le storie di chi fugge da situazioni intollerabili spesso comportano, ma anche con lo sguardo aperto a prospettive di riscatto.

I sentimenti continuano a essere presenti nelle storie dei nostri narratori: l’amore, ça va sans dire; ma forse più la paura dell’amore e la fuga dall’amore. Meno presente che in passato il tema del lavoro e del precariato delle nuove generazioni, con una scarsa corrispondenza tra le professioni svolte dagli autori e quanto raccontano nei loro libri. Si sta insomma superando quella tendenza all’autobiografismo che è stata per molto tempo una caratteristica di tanti libri nostrani, soprattutto di giovani scrittori.

Il basso continuo della narrativa italiana continua invece a rimanere un certo radicamento locale, talora con interessanti esiti sperimentali legati, dal punto di vista stilistico, alla contaminazione con i dialetti: il che determina una pregevole ricchezza espressiva.

Ma che cosa cercano i critici nelle tante – sicuramente troppe – opere di narrativa sfornate settimanalmente dalle case editrici? A quali criteri improntano i loro giudizi? Anche su questo punto il dibattito è stato acceso. Ed è bello che una giuria tecnica senta il dovere (e abbia il piacere) di esplicitare apertamente le ragioni delle proprie preferenze, piuttosto che assumere decisioni segrete in ovattate stanze.

I libri più apprezzati sono quelli non normativi, che ribaltano le aspettative del lettore grazie a un rovesciamento di prospettiva, magari giocando sul non-detto (Chiara Fenoglio), le narrazioni dotate di parole vive, nuove, emozionali (Roberto Vecchioni), i romanzi e i racconti capaci di colpire per i temi, la lingua e il modo di rielaborare la tradizione letteraria (Emanuele Zinato), le opere capaci di sorprendere grazie alla loro dimensione ‘controfattuale’, perché il mondo esiste già da solo e dunque non ha bisogno di essere duplicato artisticamente (Federico Bertoni), quelle dotate di una propria, inconfondibile voce (Daniela Brogi). È stato, infine, Luigi Matt a esplicitare un pensiero condiviso: per fortuna, diversamente da quanto si poteva temere, non è esploso un filone narrativo incentrato sulla pandemia. Perché la letteratura gioca sulla complessità, sull’ambiguità, sulla polisemia. E le opere che inseguono cronachisticamente la realtà sono sempre le meno interessanti.

da avvenire.it