«Non è il cellulare a essere cattivo. È ciò che ci mettiamo dentro». Con parole semplici ma tutt’altro che banali, don Fortunato Di Noto ha fatto vibrare le pareti dell’Auditorium di Santa Scolastica, dove centinaia di studenti reatini si sono ritrovati a riflettere — forse per la prima volta in modo così diretto — sul potere che la comunicazione esercita, soprattutto quando si rivolge ai più fragili.
Invitato dalla diocesi di Rieti per un appuntamento in preparazione alla Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, il sacerdote siciliano, fondatore dell’associazione “Meter”, è intervenuto con uno stile che mescola racconto personale, denuncia, memoria, affetto e urgenza morale. A introdurre l’incontro è stato don Marco Tarquini, direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali, mentre il vescovo Vito ha offerto al termine parole di gratitudine e incoraggiamento: «Non basta solo la generosità. Servono anche competenza e cuore».
Don Fortunato è arrivato all’alba, con un volo partito da Catania. Si è presentato senza retorica, quasi stonato dal sonno e da un’assenza: «Ho dimenticato il cellulare in macchina. Una crisi, davvero». Ma proprio questa mancanza è diventata una chiave per aprire il discorso. «Mi sono accorto che senza telefono non esisti. Non comunichi più. Non sai neanche chi ti cerca». Eppure, paradossalmente, proprio questa sospensione lo ha riportato al centro della questione: «Comunicare non è solo connessione. È relazione. È dire la verità. È cercare l’umano».
Un lungo filo ha unito i racconti, dalle prime esperienze con Internet negli anni Novanta, quando la rete era ancora territorio inesplorato, alla nascita del suo impegno contro la pedopornografia e gli abusi online. Un trauma d’origine, narrato senza morbosità ma con precisione: «Una sera ricevetti, in una vecchia chat, immagini di bambini violati. Non ero preparato, non avevo strumenti. Ma quelle immagini mi hanno ferito per sempre». Da lì l’urgenza di rispondere, di presidiare, di fondare un’associazione che fosse “grembo, accoglienza, protezione”. E soprattutto di abitare la rete come “periferia digitale”, luogo da evangelizzare ma prima ancora da custodire.
Citando Papa Francesco e il suo richiamo a non perdere l’umano nella società iperconnessa, Di Noto ha ricordato che «le parole possono uccidere. Le immagini possono ferire. Ma possono anche salvare. Possono aprire spiragli». Ed è in questa tensione che si colloca il suo sforzo: «Non ho fatto 2000 chilometri per essere sleale. Io vi voglio solo consegnare una cosa: la possibilità di essere felici senza inganno».
Non sono mancate riflessioni sull’uso distorto dei social, sulle derive del cyberspazio, sullo sfruttamento dei dati personali da parte delle piattaforme, sulle responsabilità dell’intelligenza artificiale. Ma anche un monito: «Il virtuale non è virtuale. È reale. Toccare una foto significa toccare una persona. Lo schermo è touch perché tocca la vita».
Tra i momenti più intensi, il racconto di una giovane vittima di cyberbullismo, che dopo un iniziale riscatto attraverso i social è stata nuovamente spinta all’isolamento e alla morte. «Sono andato al suo funerale anche se non la conoscevo. Perché una parola, una foto, un gesto possono cambiare tutto. In bene o in male».
E proprio per restituire uno spazio di senso e di speranza alla comunicazione, don Fortunato ha realizzato una Porta Santa digitale. «Nel Giubileo si attraversa una soglia. Noi l’abbiamo aperta nel web. Per dire che anche lì, anche in quell’oltre tecnologico, si può essere pellegrini di speranza».
In chiusura, le parole di monsignor Vito Piccinonna hanno ricordato che la rete può farci sentire più soli, se non siamo capaci di viverla con responsabilità. Ma che comunità come la scuola, la Chiesa, la famiglia, possono ancora agire insieme: per non lasciare nessuno indietro. Per continuare, davvero, a comunicare.