Don Domenico: «La fatica di aprirci all’altro è quella di lasciarci lavare da Dio» / VIDEO

La lavanda dei piedi è un «gesto provocatorio» che «spiazza tutti, sia perché fatto durante la cena e non all’ingresso della casa, sia perché a farlo non è un servo ma il Maestro».

È la premessa fatta dal vescovo Domenico prima di ripetere il gesto compiuto da Gesù con gli apostoli nella Casa di Accoglienza dell’Alcli “Giorgio e Silvia”. Per la celebrazione del Giovedì Santo, infatti, il vescovo ha scelto di recarsi nella struttura che dà ospitalità ai malati oncologici bisognosi di cure presso il nosocomio reatino e ai loro familiari.

A tutti mons. Pompili ha ricordato la domanda di Pietro (Signore, tu lavi i piedi a me?), perché è quella resistenza ad offrire a Gesù la possibilità di spiegare un’azione che non può essere interpretata solo come una lezione di umiltà. È vero che il gesto di deporre le vesti e di assumere il grembiule contiene un’allusione al Dio che si è fatto uomo, «ma nella reazione di Pietro c’è qualcosa di più profondo e radicale da cogliere». C’è in ballo un rovesciamento: più di «quello che fa l’uomo nei riguardi di Dio» (Pietro vorrebbe semmai lavarli lui i piedi al Maestro!), conta «credere che sia Dio a fare ciò che è necessario e sufficiente nella vita».

Ed i piedi – una parte del corpo maleodorante, imbarazzante, solitamente occultata, stanno a dire che «Dio interviene proprio nelle parti più scabrose e più nascoste della nostra esistenza».

Al di fuori del racconto evangelico, «ci sono almeno due situazioni in cui sperimentiamo questa fatica di lasciarci lavare da Dio: il momento del dolore fisico e quello della colpa morale».

Quando accusiamo una malattia e sperimentiamo la nostra fragilità,

sentiamo che ci manca la terra sotto i piedi. Nel caso di un tumore la parabola è drammatica: incredulità e rifiuto, poi, forse, accettazione e rassegnazione. Ma non è così scontata questa sequenza. Bisogna dipendere dagli altri, vedersi progressivamente diminuiti nelle proprie capacità, sperimentare un senso di impotenza. Che cosa accade in questo frangente? Solo chi lo vive può raccontarlo. E solo chi lo sperimenta può passare dal rifiuto alla rassegnazione di vedersi lavare da Dio.

Quando invece siamo sotto scacco di una passione che ci domina,

proviamo un senso di vergogna che ci porta a nasconderci perfino a noi stessi. Nel caso di un tradimento sentiamo che non dobbiamo essere scoperti e che nessuno deve sapere. Solo quando ci si arrende all’evidenza dei fatti e non si mentisce più a se stessi si è in grado di farsi lavare da Dio che sempre ci rimette in cammino.

Dunque la lavanda non evoca tanto una purificazione esteriore, quanto «un processo interiore di allontanamento dalla nostra autosufficienza per aprirci all’azione e alla grazia di Dio. Solo allora diventiamo capaci a nostra volta di lavare i piedi agli altri».

«In concreto – ha concluso il vescovo – significa non seguire solo i nostri interessi, ma interessarci degli altri; non assecondare solo le nostre intuizioni, ma aprirci al confronto con gli altri; non costruirci Dio a nostra immagine, ma accogliere quello che ci si rivela in Gesù Cristo, anche se così diverso da noi. La lavanda ‘purifica’ il nostro sguardo su Dio e ci fa comprendere il primato della grazia rispetto alla nostra scarsa giustizia».

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Scarica l’omelia del Giovedì Santo (24 marzo 2016)

Foto di Massimo Renzi