Chiesa

Corridoi umanitari in Italia: 500 rifugiati accolti in 47 diocesi

A distanza di due anni dal Protocollo sottoscritto nel 2017 tra la Cei e il governo italiano, con la collaborazione della Comunità di Sant’Egidio e il ruolo operativo svolto dalla Caritas, il 97% delle persone ha ottenuto lo status di rifugiato e il 3% la protezione sussidiaria

A distanza di due anni dal Protocollo sottoscritto nel 2017 tra la Cei e il governo italiano, con la collaborazione della Comunità di Sant’Egidio e il ruolo operativo svolto dalla Caritas, il 97% delle persone ha ottenuto lo status di rifugiato e il 3% la protezione sussidiaria. Tutti i minori in età scolare sono stati inseriti a scuola. Il 30% dei beneficiari è inserito in corsi di formazione professionale e 24 hanno già trovato un impiego. Sono alcuni dei dati che emergono dal primo rapporto sui corridoi umanitari in Italia “Oltre il mare” presentato oggi a Milano.

500 persone accolte in Italia tramite i corridoi umanitari, tra cui 106 nuclei familiari e 200 bambini. 47 diocesi impegnate nell’accoglienza in 17 Regioni e 87 Comuni. Oltre 700 operatori, famiglie e volontari coinvolti, tra cui 58 famiglie tutor. Sono profughi tra i più vulnerabili provenienti da Eritrea, Sud Sudan, Somalia, Siria e Iraq con alla spalle storie dure di persecuzioni, violenze, tratta, guerra. Molti di loro erano da anni nei campi profughi in Etiopia, Giordania e Turchia, senza la possibilità di tornare a casa e senza possibilità di futuro. A distanza di due anni dalla sottoscrizione del Protocollo tra la Cei e il governo italiano, con la collaborazione della Comunità di Sant’Egidio e il ruolo operativo svolto dalla Caritas, il 97% delle persone ha ottenuto lo status di rifugiato e il 3% la protezione sussidiaria. Tutti i minori in età scolare sono stati inseriti a scuola. Il 30% dei beneficiari è inserito in corsi di formazione professionale e 24 hanno già trovato un impiego. Sono alcuni dei dati che emergono dal primo rapporto sui corridoi umanitari in Italia “Oltre il mare” presentato oggi a Milano, nell’Aula Magna dell’Università Cattolica. Presente, tra gli altri, l’arcivescovo di Milano monsignor Mario Delpini.

Spezzare il circolo vizioso alimentato da politiche restrittive. L’esperienza di questi due anni dimostra che si può spezzare l’attuale circolo vizioso in corso: le politiche restrittive di molti Paesi europei contribuiscono ad alimentare gli ingressi irregolari e di conseguenza l’ostilità da parte della società che accoglie.

Al contrario, i corridoi umanitari favoriscono i percorsi di integrazione delle persone attraverso il coinvolgimento di diversi soggetti nei territori. Sono stati accolti dalle Caritas diocesane secondo un modello che ha coinvolto le diocesi, le famiglie, singoli cittadini, le comunità locali. I richiedenti asilo hanno avuto a disposizione vitto, alloggio, corsi di lingua, iscrizione scolastica, assistenza sanitaria e psicologica nei casi di vulnerabilità rilevati, assistenza legale e amministrativa, avviamento all’inserimento lavorativo.

Corridoi umanitari e resettlement, uniche risposte per combattere i trafficanti. Le stime sulla crescita della popolazione immigrata mostrano infatti un incremento della mobilità sostenuto nei prossimi 20 anni: se continuassero i trend attuali, nel 2050 i migranti a livello globale raggiungerebbero i 405 milioni. “Cogliere i limiti insiti nelle politiche restrittive e al contempo le potenzialità collegate alle migrazioni regolari, dovrebbe, quindi, caratterizzare un processo di analisi necessario a promuovere una nuova governance del fenomeno – suggerisce il rapporto -. Purtroppo ciò a cui stiamo assistendo è molto distante da questo approccio strategico e propositivo. L’incapacità di affrontare consapevolmente queste sfide alimenta, infatti, un processo di semplificazione che si traduce in politiche di corto respiro, inadeguate ad una corretta gestione delle migrazioni”. In mancanza di una programmazione seria e a lungo termine la società civile si è attivata attraverso l’esperienza dei corridoi umanitari, che sono oggi “l’unica risposta strutturata, insieme ai programmi di resettlement, messa in atto per combattere i trafficanti, scongiurare le morti in mare e garantire sicurezza ai migranti e ai coloro che li accolgono”.

Uno studio dell’Università Notre Dame. Nel rapporto vengono anche riportati i primi esiti di uno studio sui corridoi umanitari dell’Università di Notre Dame negli Stati Uniti, che durerà 5 anni. I ricercatori sono andati nelle comunità di accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati e hanno condotto più di 300 interviste per verificare la qualità dell’integrazione e i nodi critici. Fondamentale, secondo lo studio, è il ruolo di un mediatore culturale preparato che smorzi le eventuali tensioni e attriti tra i beneficiari e le comunità ospitanti. Di primaria importanza è l’esistenza di una reale rete di soggetti sul territorio (volontari, famiglie, tutor, scuole, parroci, istituzioni, operatori sociali) che facciano sentire le persone accolte “a casa” o comunque “parte di una comunità”. In alcuni casi, soprattutto nelle zone rurali o di provincia, le persone si sono sentite un po’ isolate e in altri erano necessarie professionalità specifiche che li accompagnassero: etnopsicologi o consulenti legali. Tra i suggerimenti, effettuare degli screening di salute mentale già in Etiopia – che Caritas italiana ha già fatto nelle partenze successive -, mirare rapidamente all’autonomia delle persone per non cadere nell’assistenzialismo ma soprattutto promuovere un dialogo costruttivo costante e aperto all’incontro reciproco.

L’appello all’Europa e ai singoli Stati membri è chiaro: “per affrontare il complesso fenomeno migratorio attuale non ci si può fermare a consegnare la questione nelle mani dei Paesi di origine e di transito”, come sta avvenendo ora con l’esternalizzazione delle frontiere in Libia, in Marocco, in Niger, in Turchia, eccetera.

“Sono necessarie alternative credibili ai viaggi illegali che garantiscano la sostenibilità dell’accoglienza attraverso il coinvolgimento delle comunità locali, per puntare all’autonomia dei beneficiari e alla coesione sociale”.

Tra le raccomandazioni finali, “la necessità di incrementarne il numero e di uniformare le diverse esperienze avviate nei vari Paesi europei”.