Con gli occhi di Gaber…

Come avrebbe cantato gli indignati di oggi Giorgio Gaber? Il suo humour avrebbe pungolato il pensiero fiacco e spuntato che ci circonda? L’arte del Signor G. è stata una preziosa, cruda analisi delle nostre miserie. Necessaria proprio perché tagliente e impietosa.

l’orizzonte traballante


Il pensiero critico di questi anni esprime un sentimento parziale, limitato, incapace di esaurire il grande spaesamento collettivo che attraversiamo. Cultura, estetica, politica, economia: nessun campo del pensiero e dell’azione sfugge ad una sensazione di sgomento, ad un’ansia diffusa, allargata, senza oggetto. La sfiducia pare permeare ogni cosa e mancano figure di riferimento. La politica ha delegittimato se stessa e si è fatta veicolo di interessi estranei alla dimensione collettiva. La Chiesa, più attenta all’uomo, elabora buone proposte, anche di grande eco mediatica, ma difficilmente entrano nel costume. Il mondo della cultura si è come prosciugato, è divenuto quasi incapace di indicare strade nuove, è ampiamente scivolato verso il puro intrattenimento.

una società esausta


La cosidetta “società civile” prova a metterci una toppa. Un po’ dappertutto emergono “movimenti” e non è male. Di solito si muovono a partire da un sentimento di rabbia, insoddisfazione e disgusto. Organizzano assemblee e cortei, fanno anche richieste sensate, ma di pensiero ce n’è poco. Di solito si limitano a riproporre soluzioni viste altrove. Rappresentano l’idea che qualche accorgimento tecnico basti a dare risposte, quasi che, in fondo, la politica possa ridursi a questo. Così i “movimenti” odierni pensano di trovare soluzioni nella gestione razionale e trasparente dell’energia, dei rifiuti, della pubblica amministrazione. Sarebbe già qualcosa, ma non basta a dare slancio vitale ad una società quasi esausta, priva di spunti, incapace di muoversi oltre l’effimero e inventare un futuro.

far finta di essere sani


Affidarsi alla tecnica e al mito della buona amministrazione è decisamente insufficiente. Non ci aiuta a fare i conti con il corpo, i rapporti personali, il lavoro, il cibo, le cose. Facciamo gli equilibristi su un piano inclinato, falso, artificiale. Facciamo finta di essere sani, avrebbe detto Gaber. Il suo acume gli faceva cogliere questa finzione di massa, prodotto di esistenze inautentiche.

A quei tempi (non lontani) c’erano intellettuali capaci di leggere nelle pieghe del reale, trovarne i punti critici, le fratture, le contraddizioni. Con le canzoni, il teatro, le parole, ci hanno svelato il lato tragicomico delle esperienze più normali, pacifiche, scontate.

Il Signor G., in particolare, temeva l’appiattimento acritico sull’idea di progresso. Quante ragioni aveva. Riflettendo sugli slanci del proprio tempo e sulle sue utopie, ne trovava i limiti e probabilmente ne soffriva per primo.

la generazione che ha perso


Con le armi gentili del menestrello, si è fatto critico disincantato del mutamento antropologico. Capì e raccontò la trasformazione del mondo in mercato, del corpo in oggetto, delle cose in merci ingannevoli. Musicò la menzogna della salvezza cercata nel consusumo. Gaber apparteneva all’Europa degli slanci migliori, degli ideali positivi, delle ribellioni più costruttive. I mille rivoli del teatro-canzone confluiscono su una domanda: cosa vale scendere in piazza e contestare le storture del mondo, se soccombiamo invariabilmente all’unica, trionfante, dittatura del mercato?

Una intuizione che anticipa l’oggi. Gli indignati, in fondo, propongono una maggiore efficienza, partono cioè sempre dall’economia, anche se verde e virtuosa. Ma la tensione verso la sostenibilità non si risolve infine in una diversa urgenza di consumare?

«Almeno i nostri padri la resistenza l’avevano fatta davvero – ha dichiarato Gaber in una intervista – noi non siamo stati capaci di resistere alla finta seduzione del consumo e, anzi, ne siamo stati complici per quanto inconsapevoli».

guardarsi dentro


Più che indignarsi di quanto gli accadeva attorno, il cantautore era capace di prendersela con se stesso – di farcela prendere con noi stessi – per gli errori del tempo presente. Il rimedio al male, pare suggerire, è riconoscere le proprie sconfitte, le proprie tare, puntare sulla consapevolezza e l’onestà intellettuale.

Al Signor G. interessava la persona e il suo rapporto con la massa. Quasi certamente non era credente, ma disponeva di una fiducia praticamente illimitata nelle potenziali risorse dell’individuo. Aveva un atteggiamento morale di fondo coerente al nucleo dei valori del cristianesimo. Ci arrivava attraverso una forte tensione morale perché interessato al rapporto deficitario fra l’uomo e la virtù.

la libertà obbligatoria


E poi era spaventato dalla “libertà obbligatoria”, quella dei polli d’allevamento, presi dall’euforia dissipatoria del consumismo. Sapeva che la libertà di far tutto è libertà di fare niente.

Gaber difendeva la persona in spazi più profondi di quelli attaccati dall’allegria del benessere materiale; era assai più sgomento verso l’appiattimento morale.

«Non c’è più nulla che migliori la persona – ha dichiarato nel 2001 –, neppure la fede, perché anche due milioni e mezzo di giovani dal Papa sono un fenomeno di consumo. L’ascolto di Padre Pio o del Grande fratello sono per me fenomeni simili e mi fanno capire che c’è una produzione consumistica che ha perso ormai completamente di vista qualsiasi senso dell’arricchimento dell’individuo».

ricominciare a pensare


Questo numero di «Frontiera» non è una biografia di Gaber, o una monografia sul suo lavoro. Non ne faremo certo un santino. È piuttosto un invito a riscoprire l’umano e ricominciare a pensare. Gaber, in fondo cercava – in qualche modo pretendeva – un nuovo umanesimo, un ritorno alla persona come misura del privato e del politico. Proviamo almeno a prenderlo come stimolo per superare una indignazione che già è diventata di maniera, con i suoi argomenti, i suoi slogan, il suo piano di discorso preconfezionato. Forse è una “illogica utopia”, ma oggi pare necessaria e impellente. «L’importante è insegnare quei valori che sembrano perduti, con il rischio di creare nuovi disperati».