Ci sono parole che scaldano, parole che proteggono, parole che curano. E parole che possono uccidere. Nella serata vissuta nell’Auditorium di Santa Scolastica, don Fortunato Di Noto non ha risparmiato verità scomode, ma le ha affidate a uno stile che non ferisce: uno stile disarmato, come disarmata dovrebbe essere la comunicazione quando non si limita a informare ma, vuole trasformare. «Comunicare bene salva l’uomo», ha detto. E non era un artificio retorico.
Invitato dalla diocesi di Rieti in occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, il fondatore dell’associazione Meter ha parlato ai laici e agli operatori pastorali come a una comunità chiamata a essere “ospedale da campo”, anche nell’ambito digitale. Dopo aver incontrato la mattina tanti studenti, con cui aveva aperto un dialogo sulla responsabilità comunicativa e la tutela dei più fragili, la sera si è rivolto al mondo adulto, con uno stile altrettanto diretto ma più articolato. Ad accoglierlo, insieme a un pubblico partecipe, sono stati ancora una volta il direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali, don Marco Tarquini, e il vescovo Vito, che ha poi concluso la serata con un intervento sentito e denso.
Don Fortunato è partito da lontano. Da una storia personale fatta di ascolto e ferite, di vocazione e scelta. Ha ricordato il momento, da giovane prete, in cui per la prima volta si è imbattuto nel male online: immagini di neonati abusati che, ha confessato, «non si dimenticano più». Ha raccontato la fondazione di Meter, l’idea della Porta Santa digitale, l’esperienza della sua parrocchia periferica, le battaglie contro la pedopornografia, la creazione di un centro di ascolto per le vittime e la scelta di abitare il mondo della rete non da tecnico, ma da pastore, come «un uomo con la croce che abita internet».
Quella del web, ha spiegato, non è una realtà secondaria, perché «il virtuale non è virtuale: è reale». Tocca le vite, le modifica, le ferisce. Anche in modo irreversibile. E chi comunica non può farlo come se nulla fosse. Deve scegliere. Deve interrogarsi sul tipo di comunicazione che sta praticando. Citando un’antica classificazione di papa Gregorio Magno, Di Noto ha ricordato le quattro forme possibili: comunicare bene il bene, bene il male, male il bene, e male il male. E ha chiesto ai presenti di disarmare la comunicazione, perché «la parola ha il potere di generare, ma anche di devastare».
Nel suo racconto sono emersi drammi concreti: giovani uccisi dalle parole, dalla solitudine, dal peso di un’immagine falsa diventata virale. Ma anche esperienze di resistenza, come quella dei sacerdoti rinchiusi nei campi di concentramento, che celebravano la Messa con le molliche nascoste nei pacchetti di sigarette. E la forza di quella speranza vissuta nel nascondimento è diventata per Di Noto la chiave per abitare anche il dolore digitale: «dobbiamo diventare samaritani nella rete, perché non ci si salva da soli».
Il sacerdote ha insistito sull’importanza di educare i bambini all’uso consapevole della tecnologia, sulla necessità di formare gli educatori, sulla responsabilità delle parrocchie e della Chiesa intera, che non può tacere davanti alle derive della rete. «Il digitale può diventare un luogo di umanità o un campo di sterminio morale», ha detto senza mezzi termini. E ha messo in guardia da una nuova forma di povertà: quella di chi, pur connesso, non ha più nulla da dire, perché ha ceduto la propria identità in cambio di un like.
In chiusura, il vescovo Vito Piccinonna ha rilanciato il messaggio della serata con parole dense e concrete. Ha ringraziato don Fortunato per la testimonianza lucida e generosa. Ha esortato la comunità ecclesiale a prendere sul serio la sfida del digitale, non come un capitolo a parte, ma come parte integrante della pastorale: «Non possiamo pensare che la rete sia un altrove. È un campo in cui si gioca la vita di tante persone». Ha ragione Di Noto, che ha parlato del bisogno di regole, di competenze, ma anche di coraggio e di alleanze: «Non possiamo essere soli in questo compito. E soprattutto non possiamo essere ingenui». Il punto di partenza, anche per il digitale, resta l’incontro: «Comunicare bene è prendersi cura. Solo chi ama davvero, comunica davvero»