Chiusura dell’Anno Santo in tenda. Don Domenico: «la nostra ‘sofferenza’ è gravida di futuro»

Si è chiuso in una tensostruttura allestita nell’area degli “ex Stimmatini” l’anno Santo della Misericordia. Oltre 500 persone hanno partecipato alla messa di ringraziamento celebrata dal vescovo Domenico

«E vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze». Dopo le violente scosse del 24 agosto e del 30 ottobre le parole del Vangelo fanno paura. Persino la Cattedrale, come molte altre chiese della diocesi, è chiusa per precauzione. Infatti la messa di chiusura del Giubileo si celebra quasi all’aperto, su di un prato, in una tensostruttura. Ma Gesù ha aggiunto subito dopo: «Nemmeno un capello del vostro capo perirà». È stata questa apertura al futuro, a dispetto dell’inquietudine e della paura, il ringraziamento per l’Anno Santo della Misericordia.

La porta aperta il 13 dicembre in Santa Maria è stata chiusa idealmente nel pomeriggio del 12 novembre nella tenda allestita per l’occasione sul campo da calcio degli “stimmatini”. Anche così giunge il fuoco del Vangelo: «il Signore – ha spiegato il vescovo Domenico – viene sempre, anche in questo tempo di dolore e di lutti, di incertezza e di angoscia che si legge negli occhi smarriti dei bambini e degli anziani. La porta che oggi idealmente si chiude in questa tenda non significa, dunque, “la fine”, ma richiama “il fine”, che è quello di lasciarsi incontrare da Dio in Gesù Cristo. A prescindere dalle condizioni avverse, sempre mutevoli e in divenire».

Il vescovo non nasconde che si tratta di una fede più difficile: «Si fa presto a ‘credere di credere’, ma è diverso quando siamo sotto scacco. Ciò nonostante la via da seguire non è il sogno e la fuga, ma la quotidianità. La perseveranza di cui si parla non ha nulla di eroico, ma solo di concreto». Ciò che conta è non stare «con le braccia conserte in attesa che passi», ma seguire l’esempio dei «tanti genitori che si ingegnano di riprendere il corso delle cose, rassicurando i più piccoli».

È in questo «evitare di sdraiarsi» per «resistere nella prova», in questo «scavare a mani nude» che dalle macerie si possono ricavare «alcune cose che avevamo dimenticato».

Vivere vale più delle cose della vita. Si torna dunque all’essenziale. Le relazioni vengono prima degli interessi. Gli altri perciò sono necessari, prima che un problema. Dio è l’ancora di salvezza e non il nostro io. E va cercato nell’oggi.

«Si chiude una porta e… si spalanca un portone» ha concluso don Domenico: «Quello della nostra ‘sofferenza’ che è gravida di futuro».

Foto di Massimo Renzi e Samuele Paolucci