Carlo Lizzani: le due solitudini

La speranza e la disperazione di fronte a un gesto tremendo che scuote la coscienza di credenti e non credenti.

C’è una solitudine che, come un tarlo, scava un uomo, giorno dopo giorno, gli toglie il respiro dell’anima prima ancora che quello del corpo.

È uno scavo silenzioso e muto ed è sempre troppo tardi quando ci si accorge dello scempio compiuto. E così davanti alla tragedia annunciata il dolore si accompagna alla domanda bruciante sul perché di un gesto così tremendo.

Carlo Lizzani è stato l’ultimo di un lungo elenco di persone che hanno deciso di chiudere la propria esistenza terrena togliendosi la vita.

Un elenco di uomini e donne che spesso nelle loro opere hanno raccontato con grande sensibilità la vita degli altri.

Anche questo non è bastato per fermare un salto tremendo.

Uccidersi a novantuno anni è interrompere bruscamente un tramonto e cancellare i suoi stupendi colori. Colori che, a pensarci bene, assomigliano tanto a quelli dell’alba.

Per cancellarli è, però, necessario prima riconoscerli e ammirarli: la grande questione nasce proprio a questo punto.

Si può arrivare al tramonto e scoprirlo senza colori perché questi si sono sbiaditi, sono addirittura scomparsi nello scorrere delle ore del giorno. Ore, spesso, di grande solitudine, di smarrimento, di sofferenza.

E così, quando inesorabilmente si avvicina la notte, l’unico colore che rimane è il nero. Gli occhi dell’uomo si fissano su questo colore, non riescono ad andare oltre. Con gli occhi si ferma il pensiero che lascia l’ultima parola al buio e non osa chiedersi se dopo le tenebre ci saranno le luci dell’alba.

Il pensiero cede così il passo alla solitudine della disperazione che è l’esatto contrario della solitudine della speranza.

Non è un gioco di parole, neppure uno slogan e, ancor meno, un tentativo di esprimere un giudizio sulle scelte sofferte di un uomo.

Dalla differenza tra le due solitudini viene piuttosto l’invito, lieve e fermo, a ritrovare il significato più alto del vivere, del soffrire e del morire: ritrovarlo e comunicarlo con il linguaggio della prossimità, della condivisione, della ricerca comune della verità.

E su questi sentieri che il dialogo tra la fede e la ragione è chiamato oggi più che mai a muovere passi in avanti con quella retta coscienza, con quel rispetto e con quella tenerezza che sono propri del viandante cristiano.

Forse questo camminare insieme è mancato a uomini e donne che hanno deciso di chiudere con un gesto tremendo gli occhi davanti ai colori del tramonto perché non riuscivano più a scorgerli e, di conseguenza, ancora meno riuscivano a scorgere i colori dell’alba dietro il buio delle ore notturne.

Forse accanto a loro non c’era nessuno che, tenendoli per mano, indicasse una luce invisibile a occhio nudo.

Anche questi uomini e donne non sono morti invano, hanno bussato e bussano alla coscienza di credenti e non credenti perché la solitudine della speranza e non la solitudine dalla disperazione abbia l’ultima e credibile parola.