Calcio malato: bene reprimere, ma soprattutto educare

Di fronte agli incresciosi fatti da stadio di sabato scorso, commentatori più misurati, pragmatici e competenti di noi, nel ragionare sul degrado che attraversa il mondo del calcio, hanno tirato fuori un po’ di sano buon senso e messo sul piatto una soluzione ragionevole anche se non del tutto inedita: un bel “giro di vite”.

Non serve fare troppo ricorso alla fantasia, dicono. Basta copiare gli inglesi. Poche semplici mosse e gli stadi torneranno luoghi per famiglie e bimbetti. Basta controllare le vie d’accesso, vietare i posti in piedi, mettere tornelli di sicurezza, tenere sotto controllo la gente con le telecamere, identificare ogni singolo tifoso, e vietare bevande eccitanti negli stadi. Per chi sgarra pene pesanti, e la certezza di non poterla fare franca grazie ad un rafforzato intervento delle forze dell’ordine.

Che aggiungere, siamo tutti d’accordo: reprimere la violenza non solo è necessario, ma è un dovere dello Stato democratico. Se non altro ci guadagnerebbe in autorevolezza. Quello che ai tempi del sequestro Moro non ha trattato con le Brigate Rosse, oggi è talmente debole da aver dato l’impressione di dover scendere a patti con le tifoserie.

Solo una cosa ci sfugge: in che modo la Polizia a cavallo e gli steward trasformati in buttafuori avrebbero contrastato i fischi all’inno nazionale. Sì, perché ci è sembrato quello il punto di non ritorno di tutta questa faccenda. Probabilmente neppure il più feroce degli hooligans si sarebbe mai sognato di inzozzare “God Save The Queen”. Ma qui da noi è diverso, forse anche perché con il tricolore certi nostri politici ci si puliscono il sedere.

Si può reprimere quanto si vuole, ma il tema decisivo sembra rimanere quello dell’educazione. Ma come, in che modo? E a che cosa: allo stato di polizia? Questione di gusti.

Per evitare che un ragazzo vivace divenga un violento, insegnargli la bellezza della sfida sportiva e l’autocontrollo dei propri stati d’animo, ci sembra un investimento più saggio di quello sul necessario controllo esterno. E se questo richiedesse un periodo di campionati fermi ce ne faremmo facilmente una ragione.

Dopo tutto è vero che l’onere dell’educazione è di genitori, scuola, parrocchie e associazioni. Ma anche gli stessi “club” avrebbero non solo il dovere, ma pure l’interesse a coltivare le virtù relazionali.

Lo scadimento d’immagine cui il calcio italiano è arrivato, infatti, non sembra essere colpa di una limitata frangia di estremisti, ma di tutto un sistema. Fermarsi a ragionare un po’, in queste condizioni, sarebbe di sicuro una buona pubblicità.

E poi ci potrebbe essere il pericolo che questo degrado sia l’anticamera del crollo del calcio-business. E a chi mangia col pallone, questo non può di certo far piacere.