Balcani: quale destino?

Tra ”storia dimenticata” e speranza nell’Unione europea

“Perché?”. È questa la domanda rimbalzata da un relatore all’altro nel corso del convegno “Finestre balcaniche: uno sguardo tra presente e futuro in Bosnia Ervegovina”, svoltosi il 26 gennaio a Milano. Un evento realizzato volutamente in concomitanza con la Giornata della memoria del 27 gennaio in quanto il dramma vissuto nei Balcani rappresenta ormai “una storia dimenticata”, nonostante sia avvenuta nel cuore dell’Europa solo vent’anni fa. Che cosa sono i Balcani oggi e quale sarà il loro destino?

La memoria condivisa.

“Un Paese senza un passato non può avere un futuro, né tanto meno può sperare di progredire nei processi di integrazione”, ha detto Refik Hodzic, giornalista, film maker, attivista per la giustizia e responsabile della comunicazione per l’International Center for Transitional Justice. “Se attualmente nel mio Paese stiamo assistendo ad una fase di stabilità e pace, dobbiamo essere consapevoli che questa potrebbe non durare – ha precisato il relatore – in quanto i leader politici, l’intellighenzia e i media stanno attuando un revisionismo storico dannoso quanto la propaganda di odio che ha spinto allo scoppio della guerra negli anni ’90”. “Finché verità, sancite come tali anche dai tribunali internazionali, verranno strumentalizzate dalle élite al potere o finché criminali di guerra, già condannati, continueranno ad essere innalzati ad eroi – ha sottolineato Hodzic -, la stabilità e la pace in Bosnia saranno solo apparenti”.

Scuole divise sotto uno stesso tetto.

Un altro limite evidente e preoccupante messo in luce da Hodzic è la divisione all’interno delle scuole tra bosniaci e serbi: “I giovani non crescono insieme, non sanno niente l’uno dell’altro, e fin da piccoli sono indirizzati ad un clima di odio e diffidenza dalle loro stesse famiglie”. Per questo motivo l’esigenza di una memoria condivisa è non solo urgente, ma fondamentale. “Siamo noi però che dobbiamo attuare un processo di democratizzazione dal basso, legittimo e legittimato – ha spiegato l’attivista – siamo noi che dobbiamo volere il meglio per noi stessi, senza dipendere da decisioni esterne, tanto più che l’Europa, finito il conflitto, sembra essersi dimenticata di noi”. “C’è bisogno di parlare, di confrontarci, non dobbiamo essere lasciati soli, ma è prima di tutto da noi stessi che deve nascere la voglia di cambiare il nostro futuro”.

I processi di annessione nella Ue.

L’Unione europea sembra essere l’unica speranza, secondo gli esperti presenti, per non ricadere in un nuovo conflitto e per uscire dallo stallo economico e finanziario. L’entrata nella Ue della Croazia il prossimo 1° luglio rappresenta, quindi, una tappa importante e di esempio per tutti gli altri Paesi che hanno iniziato i negoziati. “Ma i passi da compiere sono ancora molti in una Regione dove la corruzione dilagante, i problemi demografici ed economici pesano come un macigno sul futuro di questi Paesi”, ha rilevato Tim Judah, esperto e storico corrispondente dal sud-est Europa del magazine londinese “The Economist”. Una soluzione, secondo Judan, esiste e si chiama “Jugosfera” basata sulla riunione dei legami interrotti con la guerra tra i Paesi dell’ex Jugoslavia. Puntare quindi all’integrazione e alla collaborazione rappresenta per il giornalista l’unica vera opportunità per la rinascita sociale ed economica della regione. “Creare un mercato comune forte e competitivo, sarebbe il primo importante passo per la rinascita e per un futuro sempre più europeo dei Balcani” ha concluso il giornalista del “The Econimist”.

La cooperazione internazionale.

 “Se i Balcani sono collocati geograficamente in Europa questo non significa che possano essere considerati automaticamente europei”. Lo ha affermato Silvia Maraone, cooperante capo-progetto in Bosnia. “Questa penisola ha una storia complessa, e chi intende aiutare veramente i Balcani deve tenerla a mente rifuggendo – ha spiegato – ogni tipo di approccio colonizzatore, soprattutto in un’ottica esclusivamente europea”. “Se veramente vogliamo sostenere queste terre, bisogna imparare ad ascoltare, a guardare, a toccare con mano e a vivere con loro perché, ben venga la cooperazione, ma solo se finalizzata a progetti a lungo termine che possano poi essere portati avanti da associazioni e realtà locali”. Il problema, però, è che il concetto di associazionismo in questi Paesi che vengono da un ex regime socialista è molto flebile. Giovani fuggiti durante la guerra non sono tornati ad investire energie e conoscenze nei loro luoghi d’origine e quelli che l’hanno fatto si sono trovati limitati da un governo che non sostiene e incoraggia questo tipo di iniziative. “Manca una società civile impegnata, perché repressa e scoraggiata dall’élite politica, ma nel 2013, dopo più di un decennio, in Bosnia si svolgerà un nuovo censimento e – ha concluso l’esperta – la mia speranza è che con un questionario anonimo sarà possibile un’analisi più veritiera, con un ripensamento meno stereotipato dei concetti di cultura, etnia, comunità e popolo”.