Meeting dei Giovani

Azzerare le distanze: i giovani del Meeting a confronto con chi sta in prima linea

Lei è impegnata nella scuola, preside a Caivano; lui è sacerdote, ma anche medico e vive questo periodo di pandemia in duplice veste: curando anime e corpi. Eugenia Carfora e don Alberto Debbi hanno animato il secondo giorno del Meeting dei Giovani

Eugenia Carfora è una “preside di ferro”. Una di quelle che non si arrende dinanzi a situazioni che farebbero scappar via anche poliziotti e assistenti sociali, figurarsi chi opera nella scuola. Nella sua Caivano, comune del Napoletano dove già far stare a scuola i ragazzi la mattina è un successo, ce la mette tutta per far passare l’idea che solo l’istruzione può sconfiggere degrado, criminalità, mentalità camorristica che fa leva su abbandono e miseria. «Cerco di tirar fuori i ragazzi dal buio: tirar fuori quella energia per donarla al mondo; contaminare il territorio mio e anche quelli vicini».

Don Alberto Debbi, sacerdote della diocesi di Reggio Emilia, vive questo periodo di pandemia in duplice veste: curando anime e corpi. Vice parroco a Correggio, sin dalla prima ondata ha infatti ricominciato a fare quello che faceva prima della vocazione sacerdotale: il medico. Quindi si divide tra l’ospedale, dove ha ripreso a esercitare come pneumologo, e la parrocchia, dove continua regolarmente a fare il prete.

Due che ad “azzerare le distanze”, come è stata intitolata la seconda giornata del web meeting dei giovani della diocesi, sono ben abituati. Perché se è vero che “nessuno si salva da solo” (il sottotitolo di questo secondo step di questa singolare edizione del Meeting), lo sforzo di condividere la “salvezza” loro lo trasmettono prima di tutto con l’esempio personale: coinvolgersi in prima persona e “contagiare” con questo spirito di dedizione totale quanti incontrano.

Del resto, avevano detto nell’intervista parallela trasmessa online in mattinata, non è vero che il Coronavirus ha aumentato le distanze, che esistevano ed esistono a prescindere dalla situazione epidemiologica: «Ho conosciuto e conosco isolamenti costruiti dagli uomini per gli altri uomini nell’indifferenza di tanti». Eugenia, dirigente scolastica abituata a pensarne cento e farne anche di più per coinvolgere e abbattere muri, è convinta che il vero virus sia proprio l’indifferenza. Si ingegna ogni giorno a portare “salvezza”. Che per lei significa «vivere con pienezza etica la bellezza della vita». Salvezza, ribadisce don Alberto, «è una vita piena, bella».

Lei da donna di scuola, lui da pastore di anime, al fatto che occorra scommettere sui giovani ci credono non per semplice slogan. Ruolo dei giovani, dice la Carfora, è «nutrirsi di cultura, osare, rendersi protagonisti del cambiamento, scegliendo sempre strade limpide per garantire sempre la cura dell’umanità». A loro si chiede di portare «speranza e uno sguardo positivo verso il futuro».

La forza delle relazioni attraverso esperienze di vita “in trincea” è quanto i due ospiti di questa seconda giornata intendono testimoniare ai partecipanti al Meeting. Significativa quella di Eugenia Carfora al Parco Verde. Quando, anni fa, giunse a guidare l’Istituto comprensivo di uno dei più esplosivi ghetti d’Italia, racconta nell’intervento trasmesso online domenica pomeriggio, che “nessuno di salva di solo” lo aveva capito subito. Assieme a un altro proverbio: “aiutati che Dio ti aiuta”. E si è rimboccata le maniche. «Trovare luoghi così difficili e incontrare persone che hanno voglia di mettersi in gioco e creare le condizioni di salvarsi non è cosa semplice». In agguato, a controllare le mosse, quelli che hanno tutto l’interesse a che i ragazzi non vengano “salvati” per poter continuare a reclutare tra loro manodopera per l’illegalità: «e allora per tanti anni ho sentito la solitudine».

All’inizio l’aiuto lo ha cercato dai «colletti bianchi», bussando alle istituzioni. Ma «ho perso tempo» e si è accorta che l’aiuto erano i ragazzi stessi a offrirglielo: «Non tutti venivano a scuola, ma quelli che venivano erano le persone giuste per tirare avanti». Poi la doccia gelata: quando ormai si stava ingranando, ecco arrivare la soppressione della dirigenza. Trasferita a guidare una scuola superiore, si sentiva ancora più impotente: ma il primo giorno ecco un ragazzo incontrato lì nella nuova scuola: uno di quelli che aveva cresciuto alle medie conducendolo – un successo, in quel contesto territoriale – a proseguire gli studi.  «Mi disse: “È vero che sei venuta qui… Se ci sei tu, io verrò a scuola tutti i giorni!”. Sono ormai un po’ di anni che sono lì e quel ragazzo l’ho diplomato. Questa è stata la mia grande vittoria. Ci si può salvare, anche con un solo ragazzo, perché poi sarà in grado di creare una piccola cellula positiva che potrà espandersi dappertutto».

Una vera “generalessa”, la preside Carfora. Perché il suo ruolo, dice, «è quello di reclutare “eserciti del bene”». Attraverso l’educazione, l’istruzione, la crescita in valori che non siano spacciare, intimidire, inseguire i miti dei boss che contano più dello Stato e ti possono garantire cellulari all’ultimo grido e vestiti firmati a quindici anni.

I giovani, conclude, non sono soltanto il futuro, «sono prima di tutto il presente». Mettere il domani nelle loro mani è giusto «perché loro sono puri, hanno ancora voglia di contestare… Io voglio aiutarli a pensare. E in quella realtà pensare significa salvarsi».

Sul fatto che uno specialista in malattie polmonari, anche avendo abbracciato il sacerdozio, non se ne potesse restare in canonica una volta scoppiata l’emergenza non ci ha pensato su due volte. E in questo periodo don Alberto Debbi continua ad alternare camice liturgico con la stola e camice sanitario con lo stetoscopio. «Una grazia», la definisce parlando ai giovani del Meeting, quella che gli è stata offerta di potersi rimettere a disposizione anche come medico dei corpi.

In ospedale vive da vicino quanto sacrificate, in questa situazione, siano le relazioni. «Questo virus penso abbia proprio minato alla base la nostra vita basata sulla relazionalità, così come la nostra stessa fede».

Tre sono le parole guida che vuole indicare ai giovani per declinare il valore delle relazioni. Cominciando da coraggio: «Il coraggio di giocarsi, che ho potuto sperimentare per me, ma ho visto tanto coraggio in tanti medici e infermieri che si sono spesi con tanta determinazione… Ma anche il coraggio dei pazienti nel lottare contro il Covid. In tutti ho visto voglia di combattere».

Poi speranza. Per parlarne, il prete-medico racconta una drammatica esperienza vissuta nel periodo più nero dell’emergenza, con la morte di una giovane mamma che era ricoverata e il doverne dare lui notizia al marito e ai genitori, entrambi anch’essi ricoverati nello stesso reparto. Dopo aver pianto e sofferto con loro, «il padre ci ha scritto una lettera bellissima per ringraziare per aver sentito il calore umano. E concludeva con una frase bellissima: “Abbiamo perso nostra figlia ma non abbiamo perso la speranza per la vita che verrà”». Dunque «se riusciamo a non far perdere la speranza alle persone che abbiamo intorno avremo fatto veramente tanto», dice don Alberto.

La terza parola è gratitudine. E per parlarne anche qui il sacerdote riferisce un episodio vissuto in ospedale, con un paziente tracheostomizzato appena uscito dalla Rianimazione, che faceva fatica con la cannula in gola e appena gli è stata tolta ha saputo dire soltanto grazie a tutti. E gratitudine, dice in conclusione don Debbi, è quello che vuol esprimere anche lui al Signore per avergli donato di vivere questa esperienza di prossimità e relazionalità.