Incontro Pastorale

«Annunciare, avvicinare, costruire»: chiuso con la Messa in Cattedrale l’Incontro Pastorale

Nella mattinata del 9 settembre, con la Messa in occasione della Solennità della Dedicazione della Cattedrale, il vescovo Domenico ha concluso il ciclo di appuntamenti dell’Incontro Pastorale aperto il sabato precedente, facendo sintesi delle sollecitazioni giunte dalle zone pastorali e avanzando alcune proposte

Fu spiazzante, per la donna di Samaria, la risposta di Gesù riguardo quale fosse il “giusto” tempio per adorare Dio: né Garizim, né Gerusalemme, perché il tempo dei templi “vecchia maniera” è ormai trascorso, e Dio occorre adorarlo “in spirito e verità”. Parte da qui, dalla risposta che il Cristo diede alla samaritana, la riflessione con cui il vescovo Domenico ha voluto lanciare i giusti stimoli per l’anno pastorale. Delle parole del Maestro in merito al valore del tempio da lui “rivoluzionato”, contenuto nella pagina evangelica proposta nella liturgia dell’Anniversario della Dedicazione della Cattedrale, monsignor Pompili ha voluto mettere in evidenza questa necessità di uno sguardo al futuro.

La Messa celebrata in Santa Maria, nel giorno che fa memoria di quel 9 settembre del 1225 in cui la basilica superiore reatina dedicata alla Madre di Dio venne consacrata da papa Onorio III, ha concluso idealmente lo svolgimento di «questo insolito incontro pastorale» 2020, dopo il momento comune per i delegati tenutosi sabato pomeriggio a Contigliano e i cinque incontri zonali dell’indomani.

Una provocazione per la Chiesa reatina

E le parole di Gesù proclamate nel brano dell’evangelista Giovanni monsignore le ha volute assumere come una provocazione per la Chiesa reatina che, come quella donna seduta sotto il sole di mezzogiorno al pozzo di Giacobbe, viene in qualche modo spinta «a guardare al futuro» e «a prendere coscienza che nel mondo è arrivata la novità»: nel caso della samaritana si trattava di cogliere che «la novità è lui stesso, Gesù. Per questo non ha più senso il luogo, perché Gesù che ormai è il nuovo tempio». E per noi oggi?
L’impressione, ha detto don Domenico, è che «anche noi ci muoviamo ancora nel passato… Quando ad esempio l’unico criterio di valutazione della fede era considerato il numero di quelli che vanno alla Messa la domenica: ma è proprio così? E anche quando lo fosse sarebbe sufficiente la pratica festiva per dirsi ed essere veramente cristiani?».

Cristo pietra d’angolo

A tal riguardo, l’altro insegnamento fondamentale il presule ha invitato a trarlo dalle dell’apostolo Paolo della seconda lettura, quelle sul sentirsi chiamati a costruire l’edificio spirituale fondato su Cristo pietra angolare: «Come fare, anzi cosa fare per avere come pietra d’angolo lo stesso Cristo Gesù?». Per essere Chiesa vera, che tale non è se fondata su di lui, occorre mettere al primo posto «l’annuncio di Gesù Cristo». Cosa che, ha precisato Pompili, «precede la stessa catechesi che è semmai un perfezionamento della cosiddetta evangelizzazione».

Annuncio e gratuità

Nel tirare le somme della riflessione condivisa nell’incontro pastorale, allora, il succo è che, nella preoccupazione per la ripresa della vita ecclesiale post pandemia, va ribadita la primarietà dell’evangelizzazione, prima ancora di ogni altra questione sul catechismo o le varie attività. Cogliere ogni opportunità per evangelizzare «e farlo, come ci ha detto in maniera così efficace monsignor Derio Olivero, gratuitamente, senza ansia da prestazione, senza dover ogni volta contabilizzare i risultati, manco fossimo un’azienda».
In questo senso anche la legittima preoccupazione per la ripresa del catechismo, delle attività con i ragazzi, del cammino dei gruppi che sarà soggetto a mille limitazioni e condizionamenti, andrà orientata a questa attenzione “evangelizzatrice”, e nello spirito della risposta di Gesù alla samaritana per cui non è questione di un posto, ma di una persona. E perciò la preoccupazione per l’annuncio da farsi «anche nella forma del catechismo, non legato però ad un luogo, ma appunto ad una esperienza educativa che deve introdurre i bambini e i ragazzi alla vita». Esperienza sicuramente da riprendere, «ma necessariamente deve trovare nuove forme e nuovi linguaggi, e qui nessuno ha le risposte già pronte, la ricetta preconfezionata». Ma se pensassimo che il catechismo è finito per colpa della pandemia, «dovremmo riconoscere amaramente che 50 anni e più di rinnovamento catechetico non sono serviti a niente», che il catechismo è ridotto a un’aula nella quale non possiamo stare se non a distanza.

Azzerare la distanza

Quanto alla centralità di Cristo mancarla e poi dare «la colpa al virus». Il Covid ci ha mascherato, che ci ha messo nella condizione di celebrare distanziati, «ma diciamolo sinceramente: non era forse vero che anche prima della pandemia, entrando in una chiesa durante un’assemblea eucaristica, ci si rendeva conto che eravamo in ordine sparso? Non è forse vero che anche prima del virus quando eravamo perfettamente in salute, entrare in una chiesa significava constatare che non si trattava di una comunità riunita, ma di singoli individui che trovavano il posto più lontano possibile per starsene per conto proprio?».
Dunque si tratta di recuperare la vicinanza, «azzerare le distanze». E però anche qui una precisazione: «Sì, il virus ha imposto un distanziamento fisico… ma permettete che lo ribadisca: questo distanziamento fisico non è niente a confronto della distanza affettiva e relazionale che qualche volta si coglie tra noi pastori, tra preti e preti, tra vescovi e preti; non è niente rispetto alla distanza affettiva e relazionale che si svolge tra i religiosi e le religiose; non è niente il distanziamento fisico rispetto alla distanza affettiva e relazionale tra gli stessi laici, ciascuno chiuso nel proprio gruppetto di riferimento». Ciascuna delle nostre chiese, a prescindere dai numeri, dovrebbe apparire «una casa ospitale nella quale ciascuno si senta riconosciuto; la Messa domenicale anche se è formata da tre persone, come accade qualche volta nel Cicolano alla domenica, è in realtà lo specchio della vita di una comunità perché a seconda di come si dispongono le tre persone voi intuite se c’è dell’altro oltre alla presenza fisica». Impegnarsi, dunque, «ad azzerare le distanze ma non quelle fisiche: quelle affettive, psicologiche, relazionali»: Cosa che esige il «curare la qualità delle relazioni tra di noi, perché tutto va attraverso le relazioni: se mancano tutto il resto è in qualche modo impossibile».

Rinnovare la società con la carità

Infine, per quel che concerne la “Chiesa in uscita”, il «rinnovare la società attraverso la carità. Oggi è più che mai necessario reagire a quel senso di “fine dell’impero” serpeggiante un po’ ovunque: sembra che siamo un po’ come nel quarto, quinto secolo dopo Cristo, quando l’impero romano stava per franare… Per i cristiani non c’è nulla di estraneo rispetto a quello che succede nel mondo e perciò tutto quello che accade nella società ci interessa, anzi dico di più: ci sta a cuore!». E se per fare i centri estivi, per stare con gli anziani, per andare incontro alle famiglie c’è stato chi si è persino beccato il virus ciò sta a dire che è fondamentalmente «fuori della Chiesa, nella scuola o nelle case di riposo, in mezzo alla gente che noi come cristiani siamo chiamati a portare del nostro. E mai come durante la pandemia ci siamo resi conto che dove c’è gente disinteressata è possibile superare la paura e l’angoscia della solitudine».
La missione della Chiesa, ha concluso Pompili, è da sintetizzarsi così: offrire quel senso di relazione «che dà a tutti la possibilità di non sentirsi abbandonati», di essere fiduciosi e liberi “come gli uccelli del cielo”.