A sinistra della crisi: dialogo con Marco Ferrando

Marco Ferrando

La crisi della Schneider ha portato dalle nostre parti Marco Ferrando, portavoce del Partito Comunista dei Lavoratori. Ne abbiamo approfittato capire come legge la crisi di oggi chi per definizione si muove in un’orbita lontana dalla Chiesa.

Intervista registrata il 17 aprile 2013.

 

Cosa significa essere comunisti nel 2013?

Mettere in discussione una organizzazione capitalista della società. È fallita. Siamo di fronte al fallimento più clamoroso della grande propaganda che a reti unificate fu fatta vent’anni fa, quando crollò il muro di Berlino. Quando tutti ci spiegarono che ormai il Capitalismo era padrone del mondo. E che era una fortuna che le cose fossero così, perché il Capitalismo liberato dai condizionamenti del Comunismo e del Socialismo dell’Est europeo avrebbe assicurato al mondo una nuova epoca di prosperità, di progresso, di avanzamento sociale.

Beh, sono passati vent’anni e vediamo nel mondo, non solo in Italia e in Europa, che la situazione non solo è diversa, ma opposta. Ci troviamo di fronte alla più grande catastrofe sociale degli ultimi ottant’anni: la catastrofe sociale del capitalismo, una catastrofe sociale prodotta dall’anarchia del profitto, dalla dittatura del profitto nel mondo della produzione e della finanza.

Una dittatura che ha cercato di imporsi e di plasmare a sua immagine e somiglianza le relazioni umane e che così facendo ha progressivamente desertificato e distrutto posizioni sociali, conquiste che la generazione del Dopoguerra avevano strappato con durissime lotte.

Oggi le stesse classi dirigenti che si trovano alla testa di questo edificio fallito non sanno come perpetuare le condizioni politiche e sociali del sistema capitalistico che è nelle loro mani. Il caso italiano non è che la metafora più grottesca di questa situazione generale.

Quando parliamo di Comunismo gran parte della memoria collettiva si ferma alle figure di Berlinguer e Lama. Perché?

Sono due nomi che hanno una valenza duplice e contraddittoria. Sono i due nomi che si trovarono alla testa, con le rispettive organizzazioni politiche e sindacali, di una lunga stagione di ascesa del movimento operaio e popolare in Italia. La stagione che si aperta con l’autunno caldo del ’69 e si è chiusa sostanzialmente attorno al ’76. Ma sono anche i due nomi che hanno subordinato la grande ascesa di quel movimento e le sue potenzialità di svolta, di rottura con il capitalismo italiano, ad un quadro di compromesso – all’epoca si chiamò il Compromesso Storico – con il principale partito della borghesia italiana, nel caso del Partito Comunista di Berlinguer, e con la Confindustria Italiana, allora guidata dagli Agnelli e dalla Fiat, nel caso di Luciano Lama.

I due processi erano intrecciati gli uni con gli altri: la grande svolta sindacale dell’Eur, che Luciano Lama promosse all’insegna della necessità di rinunciare alle piattaforme rivendicative dell’autunno caldo e di andare incontro, obtorto collo, a una lunga stagione di sacrifici, era in perfetta corrispondenza con la politica del Compromesso Storico del Partito Comunista.

Questa politica sindacale e sociale ha dato un colpo di freno a quella grande ascesa, non solo ha arrestato una dinamica di conquiste, ma ha introdotto anche un profondo processo di disorientamento, di demoralizzazione, di demotivazione. Il concetto che poi sarebbe passato alla grande nel senso comune popolare, quello per cui i partiti sono un po’ tutti uguali, chi va in alto poi fa sempre la stessa cosa, ha le sue prime radici nella svolta del Compromesso Storico.

Dopo di che, la stagione del PC è incappata nei grandi avvenimenti internazionali con il crollo del muro di Berlino. E la reazione di quel gruppo dirigente a quegli avvenimenti è significativa: appena crolla il muro di Berlino un gruppo dirigente di formazione “berlingueriana”, che evidentemente per lungo tempo aveva vissuto con disagio l’impossibilità di accedere al governo perché dentro i rapporti internazionali dell’epoca c’era il cosiddetto “fattore K”, l’impedimento diplomatico statuale internazionale, finalmente vedeva in quell’evento la via libera alla possibile assunzione di responsabilità di governo, ma dentro il quadro del capitalismo italiano, e ancora una volta in un quadro di compromesso con le classi dirigenti del capitalismo italiano.

Così nacque la videnda del Pds, poi Ds, che oggi è approdata nel Partito Democratico. Contro quella esperienza nacque nel ’91-’92 il partito della Rifondazione Comunista. I fui, insieme a tanti altri militanti dell’attuale Partito Comunista dei Lavoratori, uno dei cofondatori di quel partito. E quel partito appena nato raccoglieva speranze e aspettative molto grandi. Io ricordo che nel ’93 fu il principale della Sinistra italiana nelle città che avevano fatto la storia del movimento operaio del ‘900: Milano, Torino… 14%, 12%, 13%… superando in larga misura il Pds. Purtroppo i gruppi dirigenti di Rifondazione hanno dilapidato scientificamente, nel corso di vent’anni, quel grande patrimonio e quella grande potenzialità. Facendo che cosa? Ancora una volta subordinandosi alle politiche di compromesso e di governo con le classi dirigenti del Paese.

Il sostegno al primo governo Prodi fra il ’96 e il ’98 da parte di Fausto Bertinotti significò votare quelle leggi di precarizzazione del lavoro e votare anche i campi lager per i migranti. Dieci anni dopo l’ingresso organico nel secondo groverno Prodi, con il ministro Ferrero e con la presidenza della Camera per Bertinotti, significò la cosa più impensabile per il partito della Rifondazione Comunista: votare le missioni di guerra, votare l’aumento delle missioni militari.

(Il movimento comunista nacque nel ‘900 rompendo con le socialdemocrazie attorno alle questioni dei crediti di guerra. I comunisti nascono, scindendosi dai partiti socialdemocratici, quando quei partiti votano i crediti di guerra, quando si subordinano agli interessi militari).

Noi da quel momento abbiamo rotto con il partito della Rifondazione Comunista e abbiamo dato vita ad una formazione indipendente che vuole rifondare la tradizione comunista, ma recuperando i suoi principi originali.

Le faccio una battuta: il PD era già scritto dal Compromesso Storico!

In un certo senso è così. È l’erede ultimo della politica del Compromesso Storico. L’embrione primo dell’organismo “Partito Democratico” è il Compromesso Storico.

Torniamo al Partito Comunista dei Lavoratori. Possiamo dire che c’è lavoro oggi? I dati parlano di una disoccupazione crescente. Ci sono giovani che neanche lo cercano più. E dalla parte opposta ci sono gli esodati…

Il lavoro è la cartina di tornasole di dove stiamo andando. Il lavoro non c’è e c’è allo stesso tempo. Non c’è perché è del tutto evidente che siamo difronte a tassi di disoccupazione di massa ignoti a tutta la vicenda del dopoguerra e che sono destinati ad espandersi ininterrottamente nel prossimo periodo, persino indipendentemente alle evoluzioni congiunturali del ciclo economico. Oggi gli investimenti non fanno lavoro. Speso gli investimenti distruggono il lavoro, dentro il quadro capitalistico della società.

Però abbiamo pure tanto lavoro. Ma è un lavoro sempre più deprivato dei suoi diritti, sempre più stretto in condizioni sociali insopportabili. Basta pensare alla piaga del precariato che non è solamente una condizione della gioventù, ma è sempre più una condizione sociale generale per il grosso delle persone che lavorano in Italia, in Europa e non solo.

E questa precarizzazione della condizione generale del lavoro non è un prodotto del “destino cinico e baro”. Innanzitutto corrisponde ad un interesse preciso del profitto d’impresa. C’è il lavoratore precario perché è quello che puoi sbattere più facilmente fuori una volta che c’è una crisi aziendale, e quando non c’è la crisi aziendale è quello che puoi pagare di meno perché è più facilmente ricattabile perché privo di diritti.

Ma questo interesse dell’impresa a precarizzare il lavoro è stato coltivato, sostenuto, sponsorizzato da chi ha governato nel nome degli interessi dell’impresa. Da chi ha governato volendo fare il comitato d’affari degli interessi dell’impresa. E questo purtroppo è avvenuto dal versante del centrodestra come anche dal versante del centrosinistra in Italia, anche qui con una compromissione, con una corresponsabilità devastante anche delle sinistre cosiddette “radicali”.

Le prime leggi di precarizzazione sono state varate dal primo Governo Prodi con il sostegno di Rifondazione Comunista. Il lavoro interinale, la vecchia piaga del caporalato, che nessuno avrebbe mai immaginato di vedere ritornare in Italia negli anni delle conquiste d’oro, negli anni ’60 e ’70, è ritornata in Italia grazie al centrosinistra.

A questo quadro generale si aggiunge la privazione di diritti sindacali collettivi. La Fiom sbattuta fuori dalle principali fabbriche italiane era uno scenario che anche solo dieci anni fa era inimmaginabile. Non era avvenuto neanche negli anni ’50. All’epoca i lavoratori del PC non potevano entrare con «L’Unità» in fabbrica senza rischiare il “reparto confino”, ma nonostante tutto in quegli anni la Fiom aveva una legittimità sindacale formale. Alla Fiat faceva parte delle commissioni interne, aveva, sia pur discriminata, una presenza di fabbrica. Oggi la Fiom è fuori legge nelle principali fabbriche. È una enormità, ma è una enormità che sta dentro una aggressione contro il lavoro e contro i diritti che non ha precedenti in Europa in tutta la storia del Dopoguerra.

Oggi la sicurezza sociale si sostiene anche grazie alla pensioni dei nostri genitori e dei nostri nonni. La “riforma Fornero” ha eliminato questa prospettiva dal nostro futuro. Cosa succederà? Noi immaginiamo che per molti ci saranno grosse difficoltà per la sopravvivenza…

Purtroppo questa è la tragica e fondata previsione di quel che sarà. Il mondo sta andando in quella direzione. Il capitalismo sta andando in quella direzione. L’esempio delle pensioni e del rapporto tra le generazioni è emblematico.

Però sembra che nessuno stia prendendo questo problema sul serio…

È perché tutti sono prigionieri, purtroppo anche a sinistra, delle truffe ideologiche che hanno alimentato e contribuito a coprire il problema in tutti questi anni. La riforma delle pensioni iniziata nel ’95 con il governo Dini, che ha sostituito il sistema retributivo con quelle contributivo, farà sì che i giovani d’oggi, che avranno domani la pensione – se avranno domani la pensione, se saranno riusciti ad accumulare i contributi necessari per averla – percepiranno una pensione che sarà comunque dimezzata rispetto a quella dei loro padri e dei loro nonni.

Oggi la pensione sempre più precaria dei nonni fa da ammortizzatore sociale sempre più precario della vita dei nipoti. Domani questo non potrà più avvenire. Domani avremo anche per questa via un quadro di declino sociale, di dramma sociale, più pronunciato. Da questo esempio come da ogni altro esempio di vita sociale che possiamo osservare, ricaviamo una indicazione di fondo.

Quando noi usiamo una espressione forte, di cui ci assumiamo la responsabilità: “o rivoluzione o barbarie”, noi parliamo esattamente di questo. Noi non parliamo di ideologia: parliamo del dramma concreto e della disperazione concreta cui è votata, sotto il controllo del capitalismo, la maggioranza della società.

Non c’è nessuna possibilità di riforma sociale progressiva di questo sistema. Questo sistema fallito, sopravvive al suo fallimento, solo imbarbarendo progressivamente le condizioni della maggioranza della società che opprime. Per cui l’alternativa vera non è come si diceva una volta: «sei riformista o sei rivoluzionario?».

Nel passato il dibattito era se il miglioramento dovesse avvenire a piccoli passi o tutto e subito. Oggi, nelle condizioni storiche del nostro tempo, il quadro reale, realistico, dell’alternativa è un altro: o metti in discussione questo sistema di società, il che significa metter in discussione il potere, la dittatura delle grandi imprese, delle grandi banche, il che significa darti una alternativa di potere della classe lavoratrice (noi parliamo di “governo dei lavoratori” per dare in metafora questa prospettiva di rivoluzione), oppure, fuori da questa prospettiva, c’è il declino progressivo della società umana.

Non esiste che fuori da quella prospettiva conservi l’attuale precarietà – che già sarebbe imbarazzante. No, ti avvii verso una ulteriore parabola declinante delle condizioni di vita.

Oggi siamo difronte a imprese che portano il lavoro fuori. Come si può ricostruire l’unità dei lavoratori se il lavoro non c’è più? Qual è la ricetta per riportare quel “buon lavoro” che dà il “buon lavoratore”?

Intanto bisogna contrastare qualsiasi provvedimento di esproprio del lavoro, e quindi devi batterti sulla tua trincea, quella che viene continuamente attaccata dal “padrone”. È complicato, soprattutto se non si reagisce a quel padrone con una forza uguale e contraria.

Per quello noi diciamo: là dove il padrone annuncia l’espulsione dei lavoratori e la chiusura di una azienda, i lavoratori hanno il diritto e il dovere di occupare quella azienda. Così come il padrone rivendica il suo diritto di licenziare un lavoratore, il lavoratore ha diritto di rivendicare il licenziamento del suo padrone.

Dopo di che è chiaro che dentro la singola trincea, in un quadro di isolamento è difficile reggere quella prova di forza. Ma questo non significa che bisogna rinunciare alla prova di forza: bisogna unificare l’intero fronte delle vertenze sul lavoro dentro una comune risposta radicale all’offensiva padronale.

Quando noi avanziamo la rivendicazione potenzialmente generale e unificante del movimento dei lavoratori, del blocco dei licenziamenti e della nazionalizzazione sotto il controllo dei lavoratori delle aziende che licenziano, noi avanziamo una rivendicazione che è uguale e contraria, nella sua radicalità, a quelle che sono le politiche generali del padronato oggi nei confronti dei lavoratori.

E fuori da questa rivendicazione, e fuori da un movimento di lotta che passando dall’occupazione delle aziende che licenziano sostenga questa rivendicazione, c’è solamente la “morta gora” delle tante, infinite, tristi vertenze aziendali, che una dopo l’altra piantano la propria croce, la croce della propria sconfitta nella propria trincea.

Detto questo, c’è un secondo aspetto aperto dalla domanda: non ci si può confinare in un solo Paese. Di fronte alla aziende multinazionali ci vuole un movimento operaio internazionale che si sviluppa proporzionalmente all’espansione degli investimenti internazionali. Perché, ad esempio, non si affronta anche questa nuova frontiera della battaglia anti-capitalistica, che passa per l’unità dei lavoratori al di là delle divisioni di bandiera?

Oggi i lavoratori cinesi, di cui nessuno si occupa se non per indagini sociologiche o statistiche, sono i protagonisti al mondo delle più grandi, gigantesche, vertenze operaie e sindacali. Fra l’altro strappando spesso, con la radicalità della propria azione, il diritto a costituire un sindacato in azienda, o il diritto ad alcuni primi embrioni di uno stato sociale che da noi viene distrutto. Non sarebbe di interesse, ricostruire un movimento operaio internazionale, degno di questo nome, a fronte di una globalizzazione, di un capitalismo in crisi? Sono tutti spunti che vengono riproposti anche dalle più piccole vertenze di fabbrica in giro per l’Italia.

Nel frattempo il sistema politico istituzionale rimane in forte difficoltà. Il Parlamento fatica a trovare una figura nuova come Presidente della Repubblica e fatica a darsi un nuovo Governo…

Sì, e tutto è riconducibile alla crisi di consenso di chi comanda. Questa situazione in Italia si è prodotta perché i partiti che hanno comandato insieme, gestito insieme le politiche di rapina nei confronti delle pensioni e del lavoro, sostanzialmente negli ultimi decenni, ma in modo più evidente e diretto nell’ultimo anno, hanno pagato lo scotto della rapina. Hanno perso 11 milioni di voti complessivamente rispetto al 2008. Credo che in tutta la storia dal Dopoguerra non abbiamo mai avuto una catastrofe elettorale di questo tipo.

È il prodotto di quelle politiche. È il prodotto del fatto che quando in alto non hai niente da offrire a chi sta in basso, ma hai solo da togliere, non puoi sperare di espandere il consenso delle persone che progressivamente espropri. In ultima analisi, la crisi politica è la crisi dei principali partiti di comando. Dopo di che – e questo interroga la responsabilità della sinistra italiana – c’è da chiedersi perché il grosso di questa sfiducia di massa rispetto ai partiti tradizionali, invece di essere capitalizzato a Sinistra, come in altri Paesi (penso all’ascesa di Syriza in Grecia, di Izquierda Unida in Spagna, e così via), finisce con il rimpinguare le casse elettorali di un movimento populista grillino che ha un progetto sociale reazionario nei confronti dei lavoratori e nei confronti dei diritti democratici.

Volendo giocare con le parole potremmo dire che tanto lei quanto Grillo siete portavoce…

Sì, ma a differenza del portavoce che modestamente sta parlando in questa circostanza, che è parte di un gruppo dirigente collettivo subordinato alla disciplina democratica della propria organizzazione, con Grillo ci troviamo in presenza di un “guru mediatico”, che sbandiera la rivendicazione apparentemente egualitaria “uno vale uno”, ma che in realtà è “l’unicum” del suo movimento e della sua parte politica.

Rivendica “uno vale uno”per mettere in discussione il principio dell’organizzazione collettiva, di qualsiasi rappresentanza collettiva: politica, sindacale, associativa, di movimento degli sfruttati e degli oppressi.

Quindi “vade retro” vien da dire. Ma se questo movimento ha tanto successo, purtroppo anche tra gli operai e gli sfruttati, questo è il principale atto di accusa nei confronti della sinistra italiana. Una sinistra talmente compromessa negli ultimi vent’anni con le politiche del potere da diventare completamente irriconoscibile agli occhi degli sfruttati. Fino al punto di spingere gli sfruttati nelle braccia di un loro avversario.

Quindi i due nomi di Berlinguer e Lama, che abbiamo fatto all’inizio dell’intervista, fanno quasi da frontiera, da confine…

Frontiere d’epoca senz’altro. Non perché la loro politica fosse qualitativamente diversa da quella che si fa adesso. Ma perché quella politica di compromesso storico chiudeva una lunga stagione d’ascesa. Loro erano i curatori della chiusura formale della stagione che ne aveva accompagnato l’ascesa politica e sindacale. Questi di oggi sono invece gli amministratori del declino del capitalismo e della discesa progressiva del movimento operaio.

Draghi dice alle banche: «prestate soldi, perché se non prestate soldi l’imprese non possono continuare a lavorare». La Fornero dice che mancano un miliardo circa di euro per coprire i prossimi mesi la cassa integrazione. C’è correlazione?

Assolutamente sì. Il punto di correlazione è la dittatura del capitale finanziario. Le banche che dovrebbero prestare i soldi alle imprese secondo la propaganda corrente sono state rimpinguate a mani basse per oltre mille miliardi dalla BCE; con soldi pubblici, perché anche quei soldi sono ricavati direttamente o indirettamente dalle tasche dei cittadini. Con i regimi fiscali vigenti in Europa, prevalentemente dai lavoratori dipendenti.

E sono le stesse banche che hanno investito a mani basse in titoli di Stato. E sono le banche che chiedono agli Stati nei cui titoli hanno investito di pagare ogni anno, ad esempio in Italia, 85 miliardi interessi sul debito pubblico. 85 miliardi che finiscono nei loro portafogli sottratti ai diritti dei lavoratori, dei pensionati, degli esodati. Anzi, sono 85 miliardi che richiedono lo smantellamento progressivo di quei diritti e di quelle conquiste. Per cui – tanto per stare alla cronaca – è un po’ singolare che nel caos della politica italiana l’unico punto fermo su cui hanno raccolto non a caso la convergenza generale di tutte le forze politiche è che bisogna pagare 30 o 40 miliardi debiti delle amministrazioni pubbliche ai privati, ma non hanno trovato i soldi (un miliardo circa) per sostenere la cassa integrazione in deroga. Parliamo delle condizioni di vita di 500.000 persone che a giugno rischiano di trovarsi sulla strada da tutti i punti di vista, non solo dal punto di vista del lavoro.

Vertenza Schneider. Rieti ha avuto un nucleo industriale importante. Un territorio dedito all’agricoltura che si è riconvertito all’industria. Oggi le industrie se ne vanno, qual è la nostra prospettiva in questo declino?

Intanto ci interessa discutere direttamente con i lavoratori della loro condizione e delle possibili prospettive d’azione. Ai lavoratori faremo presente, con la chiarezza che ci contraddistingue, quello che è il nostro punto di vista. Noi pensiamo che il caso della Schneider, come tanti altri casi che stiamo seguendo – anche un un investimento diretto, organizzativo, personale in qualche caso – è la testimonianza di un dramma, anche di direzione e di guida del movimento operaio in Italia.

Perché anche sindacati relativamente combattivi come la Fiom, che hanno positivamente denunciato e contrastato le politiche dominanti, non si sono ancora assunti la responsabilità di una proposta unificante di queste mille vertenze.

Per cui faremo presente ai lavoratori della Schneider due cose: nello specifico della loro situazione, con un padrone che a partire dal novembre dell’anno scorso ha deciso che tutti i lavoratori andranno sulla strada, bisogna trattare da una posizione di forza, e quindi bisogna conquistare una condizione di forza.

Se i lavoratori decidessero di occupare l’azienda noi sosterremmo incondizionatamente quel tipo di azione. Dopo di che c’è un problema di unificazione del fronte, magari con tante altre realtà del territorio che attraversano crisi analoghe, e c’è un problema di rivendicazione generale del movimento operaio.

Sarebbe bello se dai lavoratori di una piccola azienda come la Schneider venisse una proposta, un richiamo, rivolto all’insieme del movimento dei lavoratori, per dire: ma perché non unifichiamo tutte le nostre vertenze, non apriamo una prova di forza su una rivendicazione nostra, che è quella della nazionalizzazione delle industrie che licenziano?

Fra l’altro sarebbe una grande occasione per ripartire tra tutti il lavoro che c’è. La Schneider ha formalizzato nel suo atto di dismissione dei lavoratori, che deve chiudere perché c’è una sovrapproduzione. Se c’è una sovrapproduzione significa che cala il lavoro. Ma se cala il lavoro non c’è la sola soluzione di buttare fuori i lavoratori. C’è anche la soluzione di ripartire tra tutti il lavoro che c’è, in modo che nessuno ne sia privato. La riduzione dell’orario è una delle rivendicazioni storiche del movimento operaio. Possibile che in Italia non ci sia una Sinistra politica e sindacale che rilanci la rivendicazione unificante di una ripartizione tra tutti del lavoro che c’è, e quindi di una riduzione generale dell’orario di lavoro?

Anche la più piccola discussione su la più piccola azienda apre a scenari generali dentro l’attuale crisi generale.