Parlare di iniziazione cristiana significa entrare in una realtà complessa sia sotto il profilo semantico sia sotto quello storico. Credo che, fatta salva la complessità, possiamo tuttavia tutti convenire su questa descrizione: “Iniziazione Cristiana riguarda tutto il tirocinio di apprendimento cristiano: l’interiorizzazione dei contenuti della fede…, l’apprendistato alla preghiera, alla vita liturgica e alla celebrazione dei sacramenti; il progressivo inserimento nella comunità ecclesiale; la crescita nell’impegno sociale, caritativo, apostolico” (Riccardo Tonelli).
Una prima considerazione: possono cambiare le modalità concrete del processo iniziatico ma è evidente che niente può sostituirlo. Per questo nei momenti di crisi occorre assumere atteggiamenti consoni per una diagnosi seria e per trovare soluzioni adeguate perché il processo non vada in estinzione. Lo Spirito che soffia nella chiesa mai spazzerà via ciò che è necessario ma ciò che lo ha condizionato e ridotto ad essere marginale e poco significativo.
Viviamo un tempo in cui registriamo una profonda crisi dell’Iniziazione Cristiana o per meglio dire del nostro modo di farla. I risultati, tenuto conto della descrizione richiamata all’inizio, non sono incoraggianti. In molti si sono dati da fare per ricercare le cause di questo fenomeno ma ho l’impressione che la loro fatica abbia prodotto una sorta di confusione babelica di fronte alla quale è difficile districarsi. Sono però convinto che le prospettive più giuste che emergono dalle varie ricerche per comprendere ciò che sta avvenendo sono la scarsa capacità o la debole volontà di coinvolgere sul serio le famiglie dei fanciulli e dei ragazzi da iniziare e il tradimento più o meno consapevole dello spirito del Concilio Vaticano II. Per quanto riguarda il nostro paese dobbiamo fare i conti anche con una colpevole dimenticanza delle indicazioni che la Chiesa italiana ci ha dato a partire dal Documento Base [CEI, Il Rinnovamento della Catechesi. Documento Base, 1970 (riconsegnato nel 1988)]. A tale proposito è stato detto che abbiamo cambiato i testi ma non le teste. Trovo profondamente vera questa osservazione. Vorrei tuttavia far presente anche una mia convinzione personale: credo che a monte, come sempre nei momenti di crisi, ci sia la mano di Dio che ci sta spingendo con forza sulla strada di una radicale revisione di tutta la prassi iniziatica. Tutto questo sulla base di una domanda che, finito il lungo tempo del catecumenato sociale e della societas christiana, sta emergendo con chiarezza in questo momento storico così complesso e nello stesso tempo così evangelicamente affascinante proprio perché ci “obbliga” a rivedere i “fondamentali” del nostro essere chiesa.
La domanda è questa: i bambini e i ragazzi sono capaci di comprendere il significato dei sacramenti verso i quali sono indirizzati da scelte più o meno consapevoli dei loro genitori? Per capacità intendo la reale possibilità psicologica. affettiva, culturale e spirituale per immergersi in una dimensione della vita che si fonda sulla risposta libera e consapevole all’invito di Gesù che dice: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mt 16,24). La fede che Gesù chiede ai suoi discepoli, Lui che per primo ha fatto Iniziazione Cristiana e ce ne ha dato il paradigma sia per il metodo sia per i contenuti, è radicalmente nuova rispetto a quella professata dal popolo della prima alleanza. In questo caso si tratta di una fede etnica, parentale in forza della quale un bambino crede perché per nascita appartiene al popolo credente. Gesù, come ben sappiamo, chiede una fede personale, da persone adulte capaci perfino di mettersi in contrasto con i loro genitori proprio perché lo hanno incontrato, lo hanno ascoltato e lo hanno scelto. Non si crede perché si appartiene ad un popolo ma si appartiene al popolo che Gesù intende costituire, la sua chiesa, perché si crede. Cristiani si diventa proprio così. La domanda è d’obbligo: ha senso, da un punto evangelico, continuare ad adottare una prassi che, forse, poteva avere le sue ragioni nel tempo della cosiddetta societas christiana, ma che appare sempre più disincarnata e inefficace rispetto alle nuove condizioni storiche?
Si apre uno scenario che, tuttavia, per il momento può rimanere solo una domanda aperta. Resta il problema attuale nella sua concretezza e, in attesa del giorno che verrà, è nostro dovere cercare di dare risposte significative. Provo a suggerire qualche pista di riflessione limitandomi all’annuncio senza scendere troppo nei particolari.
Innanzitutto non va dimenticato che l’Iniziazione Cristiana è ancora il fenomeno religioso che ci permette di stabilire un contatto continuato con gran parte delle famiglie delle nostre chiese locali. A loro dobbiamo il massimo della serietà nella proposta e il massimo dell’impegno nella realizzazione della stessa con la speranza che qualche famiglia risponda in maniera più convinta, diventando in tal modo sale, luce e lievito nei confronti delle altre.
Tenendo conto di questa realtà il nostro primo compito è quello di non disorientare le famiglie con proposte e itinerari aggiustati secondo il nostro modo di vedere o peggio secondo le nostre pigrizie mentali e spirituali. E tanto meno bisogna assecondare la loro tendenza a cercare il minimo, quando non è addirittura il niente, per arrivare alla celebrazione del sacramento. La proposta deve essere seria, concorde e condivisa. È vero che siamo diversi ma nella logica cristiana lo sforzo di tutti deve essere quello di convergere verso l’unum. Le corde di un violino sono diverse l’una dall’altra, ma lo spartito da suonare è comune e comuni sono le regole della musica. Altrimenti trasmettiamo anche noi un messaggio che è quanto di più deleterio i nostri ragazzi possano ricevere: la libertà consiste nel fare ciascuno quello che vuole.
Ci sarebbero altre considerazioni da sviluppare, ma credo che quanto detto sia sufficiente per capire l’importanza di realizzare anche nella nostra chiesa quello che i vescovi ci hanno detto qualche anno fa:
Se «l’organizzazione della pastorale catechistica ha come punto di riferimento il vescovo e la Diocesi», nessuna chiesa locale può essere priva di un suo ufficio catechistico, i cui compiti principali sono i seguenti: compiere un’analisi della situazione locale circa l’educazione della fede, mettendo in luce le reali necessità e le risorse presenti nella diocesi in ordine alla prassi catechistica; elaborare un programma, in stretta connessione con le indicazioni del vescovo, che proponga obiettivi, orientamenti chiari e azioni concrete… (Conferenza Episcopale Italiana, Incontriamo Gesù. Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia, 15 ottobre 2014, n.88).