È stato il sole di fine agosto ad accompagnare la comunità di Amatrice in un mattino che non è come gli altri. Nove anni dopo il sisma del 2016, il ricordo si è fatto preghiera e presenza condivisa. Una giornata iniziata con la deposizione di una corona di fiori davanti al monumento alle vittime, nel parco dedicato a don Giovanni Minozzi. Un gesto silenzioso, che ha raccolto in sé la memoria di chi non c’è più e la responsabilità di chi resta.
Quindi ci si è ritrovati nell’attiguo palazzetto dello Sport, trasformato in chiesa per l’occasione. Qui, con la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo Vito, il ricordo ha trovato forma nella liturgia, intrecciando la memoria della tragedia con la domanda di speranza.
Il palazzetto gremito, il canto del coro unito all’Accademia Vicino Accumoli, i segni discreti di una comunità che ha imparato a riconoscersi anche nella ferita: tutto ha contribuito a creare un clima di raccoglimento e partecipazione. Non è stato solo un rito, ma un momento di ascolto, in cui le parole del vescovo hanno assunto il valore di orientamento e promessa.
«Come sempre in punta di piedi desidero affacciarmi al vostro cuore e alla vostra vita – ha detto nell’omelia – specie in occasione di questo anniversario, che, anche per essere il nono, porta un di più di domande e di riflessioni ma, vorrei desiderarlo con voi, anche un di più di speranza nel cuore di ciascuno. Ne abbiamo bisogno, tanto».
L’omelia ha insistito sul senso del tempo: la Domenica, giorno del Risorto e della Chiesa, è diventata la cornice per pensare non solo al passato, ma al presente e al futuro. Da qui l’invito a non cedere alla chiusura, a non restringere il cuore. «Se la tua vita si allarga, se fai spazio agli altri, se ti accorgi degli ultimi, allora dalla Porta stretta che è Cristo sarai riconosciuto e sarai salvo».
Il vescovo ha insistito sulla necessità di uno sforzo condiviso: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta. Non arrendetevi. Coraggio, andate avanti, nella persuasione che da quella porta dobbiamo passarci tutti. Non ci possono essere entrate secondarie o preferenziali. Prima ancora che case e strutture, stiamo costruendo e ricostruendo la vita». Parole che hanno trovato ascolto in un’assemblea composta e partecipe, chiamata a farsi comunità che resiste, ricostruisce, guarda oltre.
Prima di impartire la benedizione finale, il vescovo ha rinnovato i sentimenti di vicinanza e di preghiera per tutta la comunità amatriciana e ha ringraziato quanti hanno reso possibile le celebrazioni. «Chiediamo al Signore di benedire ogni desiderio di bene e speranza che portiamo nel cuore», ha aggiunto, aprendo lo sguardo alle tragedie che continuano a insanguinare il mondo.
L’accenno è andato ai tanti luoghi segnati dalla guerra: Gaza, Ucraina, Sud Sudan e oltre sessanta aree del pianeta che vivono sotto la minaccia dei conflitti. «Il terremoto è una sciagura improvvisa e imprevedibile. La guerra è una sciagura voluta. Chiediamo al Signore di illuminarci e renderci artigiani di pace, una pace che comincia nelle famiglie, nelle case, nei territori».
Le sue parole sono state seguite dall’invocazione alla Madonna della Filetta, figura amata e vicina alla gente di queste terre, come a voler affidare alla protezione materna un cammino ancora fragile ma possibile. Nove anni non cancellano la ferita. La ricorrenza di Amatrice lo ha ricordato con chiarezza. Ma dentro la memoria c’è anche la promessa di un futuro che merita di essere costruito. Le case si rialzano, le comunità resistono, la speranza non si arrende.