Amatrice, dalle macerie rinasce la speranza

A due mesi esatti dal sisma viaggio nelle zone reatine segnate dal dramma in cui non manca, però, il desiderio di ricominciare a vivere

«Tra mezz’ora, nel tendone-cappellina, si celebra la messa. Tra mezz’ora, nel tendone-cappellina, si celebra la messa. Chi vuole partecipare è pregato di avvicinarsi…».

Tira un vento freddo, già invernale, nel quartier generale dell’opera Don Minozzi ad Amatrice, ma al microfono non si incrina la voce di don Savino D’Amelio, il prete “del terremoto” che l’Italia intera ha imparato a conoscere mentre il cuore della Penisola veniva ferito a morte. Scandisce le parole al microfono con pacata sicurezza. Mi avvicino, gli chiedo come sta, mentre accende le candele e sistema il leggìo sopra il tavolo adibito ad altare, senza perdere l’ordinarietà dei gesti, la serenità di un rituale che invoca il ritorno alla normalità. Alza lo sguardo, mi sorride semplicemente. L’avido sisma, pur essendosi divorato un paese intero con le sue numerose frazioni, non ha minimamente scalfito la solidità della sua missione.

Nella vasta area, un tempo polo pastorale di riferimento del Comune reatino, lì dove i cittadini e tutti gli italiani il giorno dei funerali di chi non è riuscito a sopravvivere hanno mostrato al mondo tutto il proprio dolore, oggi la parola d’ordine è non arrendersi. Tra un container e l’altro impiegati come farmacie, spunta un piccolo punto di ristoro. Un thé caldo, biscotti. Ci si arrangia, ci si incontra, ci si fa forza, si programma il domani. Un biliardino e due sedie lì accanto, a rammentarci che anche se tante delle vittime erano bambini, la speranza del futuro non può morire.

Ventiquattro ottobre duemilasedici: dopo due mesi esatti da quella terribile notte di agosto in cui il “mostro” della montagna scosse l’alto Lazio, le Marche, l’Abruzzo e l’Umbria, metter piede in questo cimitero a cielo aperto incute sensazioni faticosamente descrivibili a parole. Paura e attesa, desolazione e fiducia, rispetto e curiosità. La pioggia sottile, che rende scivolosi i passaggi e ancor più spettrale il paesaggio, sembra inibire ogni gesto dei non adetti ai lavori, mentre tutto intorno, mezzi dell’Esercito e del Genio civile, dei Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Corpo forestale e Protezione civile muovono incessantemente per le vie. Al Centro operativo comunale (C.o.c) si lavora con concentrazione e solerzia. Non manca il tempo di una battuta, ma quello stesso tempo ora – lo sanno molto bene i tecnici e il personale esperto – non va sprecato. La prima fase di emergenza, infatti, è terminata, ma la ricostruzione dei mattoni e, soprattutto, delle vite è appena iniziata.

Devono capitare i cataclismi per renderci consapevoli di come, improvvisamente, il nome di una località fino a prima sconosciuto diventa il simbolo di una storia nazionale. Solo i motociclisti avvezzi ai giri panoramici e i navigati buongustai sapevano dove si trovassero Leonessa, Cittareale, Borbona. Ormai, questi luoghi appartengono ad una narrativa continua. «Ristorante Roma, il mago degli spaghetti all’amatriciana». Stridono con la realtà i cartelli stradali ancora in piedi che campeggiano ai bordi delle curve, a raccontare di una tradizione antica che le macerie hanno seppellito ma che la grinta montanara non tarderà a riportare in luce.

In questo viaggio particolare mi accompagna un collega generoso. “Quel” giorno, era lì in mezzo, tra pezzi di tetto venuti giù e volti privi di vita. Impossibile trattenere l’emozione nel ripercorrere insieme quegli attimi, con i giornalisti che si avventavano alla ricerca di notizie quasi calpestando i cadaveri e le vie di accesso congestionate.

Perchè quel che forse la stampa non descrive completamente è la difficoltà di raggiungere i punti più colpiti dal disastro. Trovare la strada giusta appare quasi un’impresa, e ci si rende conto di quel che ha potuto significare per i volontari prestare i primissimi soccorsi… Quando poi cala la notte e si alza la nebbia, con le ruspe in continua azione per arginare le conseguenze del maltempo e la segnaletica che devia direzioni a seconda delle necessità, scendere dal monte ti fa sentire al sicuro, ma ti impedisce, comunque, di dimenticare.

Una volta arrivata nei pressi del piccolo centro, estraggo la fotocamera. Stavolta, mi sento più che mai inadeguata a fare foto e d’un tratto incrocio gli occhi di Duilio Cippitelli. È un Vigile del Fuoco. Uno di quelli dalla faccia attenta, competente e comprensiva. Mentre osservo uno stabile letteralmente distrutto in mille pezzi come in un bombardamento, si accorge del mio imbarazzo nello scrutare da lontano la “famosa” torre con l’orologio dalle lancette imbalsamate in un’ora fatale: 3:36.

Non ho il casco, non posso accedere alla zona rossa per ovvie ragioni di sicurezza. Un nodo alla gola e l’aria gelata che mi punge le guance devono fargli tenerezza. Così, accanto a lui, oltrepasso la linea di confine costantemente presidiata per non permettere a sciacalli e impostori di addentrarsi nel borgo storico, per anni autentico gioiello di questo angolo laziale. I segni della stanchezza si vedono, ma con paziente lucidità il pompiere – come molti altri, notte e giorno, “angelo custode” di questa gente – mi spiega la portata della situazione attuale. In tv o nel Web, i video non rendono pienamente la misura della sciagura che si è consumata quando la terra ha tremato attraverso quella faglia appenninica, trasformando i danni di questo terremoto ben più ingenti di quelli registrati a L’Aquila nel 2009.

Mi indica quello che una volta era il corso principale, mentre due suoi colleghi recuperano un piccolo tavolino. Ogni giorno arrivano richieste da parte dei cittadini per estrarre dalle case sventrate qualche oggetto o le suppellettili. Non importa se siano o di valore o meno: per molti si tratta di beni comunque preziosi, da custodire nell’animo, nei tendoni, magari da trasportare nelle nuove abitazioni che, dicono, saranno pronte per Pasqua, come in una vera e propria “resurrezione”. Ci sono animali rimasti senza padroni, figli orfani, nuclei familiari spezzati. C’è silenzio, ma c’è anche la forza dettata da una memoria da onorare, da un vissuto da ricostruire. Ci sono le aziende agricole da salvaguardare, i vecchi da sostenere, i figli piccoli da mandare a scuola. Una serra con i fiori appassiti meglio di tutto il resto sintetizza il rischio che sempre si annida dietro un dramma come questo: l’incuria, e la dimenticanza.

Qua, però, i minuti non si sprecano in lamentele, c’è troppo da fare per permettersi il lusso di guardare a ieri senza investire nel domani. Certo, nulla è scontato, nulla sarà semplice. Dalla gestione dei fondi ai controlli per gli appalti edili, dalle scelte di coniugare la naturale umanità con la ragionevolezza logistica agli effetti psicologici e alle ricadute turistiche che – il terremoto del 1997 docet – una calamità del genere porta con sè. Tampino telefonicamente il sindaco Sergio Pirozzi per poterlo incontrare, per avere qualche sua dichiarazione. Se non mi risponde non è per scortesia: nello stesso giorno si inaugura un nuovo ponte progettato all’occorrenza. Ed è un motivo di ottimismo, un’occasione per credere che, passo dopo passo, questo fazzoletto del Belpaese, può ricominciare. Bisogna venirci, ad Amatrice e dintorni, per capirne a fondo la mentalità, le usanze. E odorare il profondo legame delle persone con il territorio.

Ad alleviare le pene fisiche e accarezzare le anime dei superstiti ci pensa il vescovo Domenico Pompili, che ogni giorno fa la spola tra la Curia di Rieti e le zone amatriciane per accompagnare il cammino della “risalita” e seguire le opere di riedificazione: mi confidano che, nei giorni dello strazio, ha ascoltato una ad una le famiglie afflitte dal lutto, senza risparmiarsi, traducendo il sale delle lacrime in balsamo di salvezza. Il suo “motto” «piangenti ma non piagnoni!» è rimasto impresso nelle menti, così come nelle mani che, per sua stessa ammissione, «non possono restare inerti o nostalgiche».

Con lui c’è don Fabrizio Borrello, responsabile della Caritas diocesana che ben conosce il quadro dei bisogni effettivi. Entrambi provati da questa incommensurabile prova che l’esistenza ha riservato alla loro Chiesa, infondono coraggio e padronanza di sè a chi li incontra.

Al secondo mese dalla scossa più devastante, in questo 24 ottobre, lo stesso vescovo Pompili scandirà due significativi momenti, all’insegna della preghiera. La mattina ad Amatrice, come riporta la testata diocesana, presso i moduli che ospitano la scuola primaria, per vivere un momento di raccoglimento insieme agli alunni e a quanti vorranno unirsi. Nel pomeriggio, invece, il Pastore di Rieti si recherà a San Benedetto del Tronto, per la Celebrazione eucaristica con la comunità di Accumoli, ospitata in gran parte dal comune marchigiano.

Fare cronaca, non smettere di testimoniare ora è più che un servizio: è un impegno, un sentire umano che va oltre il dovere. Tra le tante, c’è un’immagine precisa che riporto a casa con me. Parla di un qualcosa che non ha fatto scalpore, ma che racchiude l’essenzialità di tutto questo. Una scultura, creata in cartapesta da un artista romano con le pagine di quei giorni dedicati al terremoto: era destinata a papa Francesco, venuto in visita il 4 ottobre nel paesino laziale, per portare solidarietà e vicinanza ai terremotati. Lui ha voluto che quel volto di Cristo, riposto in una teca dove sono incastonati ciottoli emblematici su una data indelebile, rimanesse tra loro. Perchè dalla sofferenza della croce non potrà che sgorgare il germe buono, e vero, della rinascita.