Rifugiato a casa mia. Il pregiudizio si supera in famiglia

La bella esperienza della prima famiglia che ha deciso di partecipare al progetto Rifugiato a casa mia di Caritas

Al lettore potrà sembrare strano, ma la prima famiglia ad aderire al progetto Caritas “Rifugiato a casa mia” non proviene dal mondo delle parrocchie. Questo però rende il percorso più ricco e interessante e dimostra che dalla Chiesa possono arrivare proposte utili alla società in senso generale.

A raccontare questa storia è la signora Irene, che comincia dall’inizio: «Mio marito ha letto su «Frontiera» che la diocesi, attraverso la Caritas, ha attivato un progetto per dare sostanza all’invito all’accoglienza dei migranti fatto da papa Francesco. E siccome da quando è in pensione cerca di rendersi utile, ha contattato subito la l’ufficio diocesano e iniziato questo percorso».

Com’è stato il primo approccio?

Per la verità io mi sono semplicemente associata a lui: non è che desiderassi questo genere di esperienza. Ma proprio perché l’esperimento mi sembrava azzardato ho deciso di stargli accanto. Dunque l’ho accompagnato al primo incontro con la Caritas e qui abbiamo conosciuto Antonella (Liorni, responsabile del settore per la Caritas diocesana, ndr). Ci siamo subito trovati a nostro agio e ci siamo lasciati guidare, pronti ad affrontare l’esperienza. Per primo ci è stato affidato Karim, un ragazzo di 22 anni del Gambia, una persona squisita, gentile. Ma la prima volta stavamo un po’ sulle spine. Voglio essere sincera: mio marito non ha pregiudizi, ma io ho qualche riserva in più. È una questione di educazione e di immaginario. Appartengo a una generazione poco abituata ad avere a che fare con persone dalla pelle nera. A livello razionale mi rendo conto che il pregiudizio non ha senso nei confronti di qualunque essere umano, ma gli atavismi sono ancora tutti lì.

Sono tutti ostacoli che si possono superare.

Certamente! Karim è un bellissimo ragazzo, ma ha la pelle scurissima. È alto una testa più di me e mio marito e noi siamo molto più anziani di lui. E anche se in una situazione così controllata avere paura è quasi ridicolo, sotto sotto rimane il «non si sa mai». Di conseguenza per il primo incontro non ci sentivamo sicuri, e lo abbiamo svolto fuori casa, pranzando al ristorante.

È stato un lungo avvicinamento!

Si, ma il problema era tutto nella mia testa. Mio marito non si fa tutti questi problemi! In ogni caso il primo incontro è stato molto piacevole, anche se la lingua rappresenta un grosso handicap. Vale per Karim e anche per Foday, che ci è stato affidato poco dopo, perché arriva dallo stesso paese. I primi passi sono stati difficili anche per loro e con la Caritas si è pensato che insieme si sarebbero sostenuti a vicenda.

Quali sono le difficoltà di questi ragazzi?

Ci siamo accorti prestissimo che la cultura come la concepiamo in Occidente per loro è inesistente, anche quando sono andati a scuola. Karim è arrivato in Italia da completo analfabeta. Parlando con lui, ad esempio, mi sono accorta che non aveva assolutamente idea che la matematica fosse una scienza. Il loro sguardo sulle cose appartiene davvero a un altro mondo. C’è un gap totale da superare. La prima cosa che ho fatto quando sono venuti a trovarci a casa è stato prendere un mappamondo e fargli vedere come è fatta la terra, dov’è il loro paese, dove si trova l’Italia. Da un certo punto di vista è terribile, perché giorno dopo giorno ci siamo accorti che è una missione immane colmare il vuoto, aiutarli a capire. La storia non la conoscono per niente. Hanno appreso soprattutto il Corano e, quindi, l’arabo.

Entrare in contatto li aiuta a comprenderci e aiuta anche noi a capire qualcosa in più del mondo?

Certamente. E il bello è che non hanno paura di sapere, di chiedere, di provare a capire. Hanno voluto vedere la costa dalla quale sono partiti per attraversare il Mediterraneo. È incredibile, ma sono arrivati camminando a piedi per buona parte dell’Africa, fermandosi e lavorando per racimolare i soldi necessari al viaggio. Ma fin quando non glielo abbiamo mostrato gli mancava la percezione della portata dell’impresa.

Il contatto quotidiano con questi ragazzi non sarà tutta scuola.

Oh no, anzi. Quando li abbiamo conosciuti avevano appena perso il lavoro. E allora mio marito si è dato da fare. Io gli ho suggerito di trovare qualcosa che possa davvero interessarli: la campagna e l’allevamento per Karim e la meccanica per Foday. E chiedendo agli amici è riuscito a trovare un paio di soluzioni. Può sembrare incredibile perché siamo disabituati a pensare che vicino a noi ci sono persone realmente interessate a dare una mano. Invece due imprenditori hanno voluto dare una possibilità a questi ragazzi. Una prova per sei mesi e se va bene non è detto che non si riesca a dare continuità al lavoro. Del resto il rapporto è stato impostato sull’idea che prenderli a lavorare vuol dire insegnare loro qualcosa: non si può campare in Italia se uno non ha un minimo di mestiere. A noi questo sembra già un grande successo.

L’introduzione dei rifugiati in una rete di relazioni era proprio l’intento della Caritas.

Ci sembra una buona intuizione. Perché lavorando sui contatti tra le persone si forma una ragnatela di solidarietà. Del resto la Caritas come farebbe da sola a risolvere ogni situazione, a entrare così nel dettaglio?

Al fondo del progetto sembra esserci l’idea che le relazioni si formano in famiglia, che la famiglia è il luogo originario dei rapporti umani.

È così. Oramai Karim e Foday vengono a pranzo o a cena da noi almeno un giorno a settimana, o durante i weekend quando lavorano. E più stiamo insieme, più ci rendiamo conto del coraggio con il quale hanno affrontato un viaggio quasi impossibile senza sapere nulla del mondo. Viene da chiedersi: chissà come sono stati trattati, che cosa è successo. Questa è la nostra parte di ignoranza, anche se tante cose le possiamo immaginare. Mi riprometto di indagare meglio questa parte della loro vita quando conosceranno di più l’italiano. Nel frattempo mio marito continua a seguirli molto, li va a trovare sul lavoro. In questo percorso sentirò di aver davvero conseguito un risultato quando riuscirò a farli partecipare a una qualunque occasione con i nostri amici. Ma ci sono ancora molte difficoltà pratiche da superare.

Ma dei suoi amici nessuno si è incuriosito, ha avuto la tentazione di provare?

Non veramente: mi pare ci sia curiosità, magari qualche battuta, ma forse vince ancora la diffidenza, l’autodifesa, la mancanza di apertura. Al di là del problema della lingua, sono rare le persone che “si buttano” a prescindere, perché sono curiose o interessate. Posso giustificarli riconoscendo che in fondo anche per me la cosa non era di certo una priorità. Ma adesso è diverso. Desidero aiutare perché conosco meglio. All’inizio avevo timore a portali “a casa”. Superata la paura, li considero “di casa”.

Ma allora come aiutare altre famiglie a fare questa esperienza?

Io credo poco nell’esempio. È come la fede: o ce l’hai o non ce l’hai. Ci si può frequentare per decenni senza avere l’impulso di fare le stesse cose. Magari ti dicono che stai facendo qualcosa di bello, ma non ti imitano affatto. In ogni caso io penso che il coinvolgimento verrà, anche se sarà una cosa lenta. Soprattutto occorre il sostegno delle istituzioni. Bisognerebbe pretendere un atteggiamento più solidale da parte delle autorità europee. Non è pensabile che una parte del globo così ricca non abbia la forza, il coraggio e la determinazione morale per aiutare, entro limiti ragionevoli, queste persone. Detto questo, dal punto di vista personale non posso che aggiungere la soddisfazione per aver seguito mio marito in questa proposta della Caritas di Rieti. Perché niente ti gratifica di più del far del bene a un’altra persona.