Urbanistica e città: cambiare rotta

Piero D'Orazi

In questo periodo la città sta affrontando la messa a punto del nuovo piano del traffico. Non sono mutate solo le regole di accesso ad alcune zone del centro, ma anche parte dei sensi di marcia e della viabilità.

I temi della ZTL non mancano mai di dar vita a qualche polemica. Rispetto al passato, però, il cambiamento sembra sia stato ben accetto dai cittadini. Non che ci sia entusiasmo, tutt’altro. Prevale piuttosto una sorta di quieta rassegnazione, uno svogliato scetticismo. Forse è solo prudenza, nella consapevolezza che il centro storico sta per avventurarsi in una notevole serie di interventi di riqualificazione.

In ogni caso, l’occasione offre lo spunto per tornare a riflettere su un fatto: la città non è un qualcosa di inanimato, di dato una volta per tutte, una materia inerte da plasmare secondo questa o quella voglia. È piuttosto un oggetto del pensiero, un risultato della storia, il prodotto di rapporti di forza.

Ne abbiamo parlato con Piero D’Orazi, architetto e insegnante, da tempo impegnato ad indagare e contrastare il degrado e la mancanza di pianificazione degli interventi urbanistici.

Prof. D’Orazi, il tema della città viene da lontano…

Sì, sono i greci che ci hanno consegnato il modello della città. Erano convinti che «i cittadini edificano la città che li forma». In qualche modo volevano comprendere quale fosse la natura dei rapporti tra cittadini e dei cittadini con la propria città. Al fondo di questo modo di ragionare c’è la tesi che una città bella produce buoni cittadini, una città razionale cittadini giusti. Sicuramente non è un caso che dalle città greche sia nata la democrazia.

È interessante questa idea della città come luogo della democrazia…

Sì, ma forse è ancora più interessante il concetto di “luogo”, l’idea che ci sono luoghi sacri e luoghi meno sacri, che i luoghi non siano indifferenti, ma portatori di proprietà e significati.

Questo modo di pensare lo spazio stride con l’espansione urbanistica indifferenziata, con i quartieri squalificati e privi di significato di oggi…

Spesso ci accorgiamo del valore di quel che abbiamo solo nel momento in cui lo perdiamo. Nel 2009 ho fatto parte delle squadre di censimento dei danni provocati dal terremoto de L’Aquila. Ero comandato in due frazioni, diciamo equivalenti a Vazia e Castelfranco. Si chiamano Collefracido e Santa Rufina. Sono luoghi in cui si comprende bene cosa vuol dire essere legati alla città. Si capisce il suo essere “bene comune”, si fa esperienza del vincolo che lega gli abitanti al loro luogo di residenza e nascita. È un sentimento profondo, radicale. Ho parlato con gli anziani: non piangevano la perdita della propria casa, ma il venir meno del contatto sociale che era assicurato dai luoghi del loro quotidiano. Ad accorarli era la consapevolezza che non avrebbero rivisto le loro città ricostruite.

È una testimonianza che porta implicito l’invito a prendersi cura della propria città…

Certo, la cittadinanza non è soltanto una fonte di diritti. Lo status di cittadino implica il dovere di farsi carico della città, di prenderne parte, di starle vicino. Di certo non si può delegare completamente il suo controllo a trenta o quaranta rappresentanti. Perché le cose funzionino al meglio è necessaria un’ampia partecipazione dei cittadini ai processi che coinvolgono la loro città e il suo sviluppo sociale ed economico.

Spesso la povertà si annida in determinate zone della città, che di conseguenza risultano essere quelle più degradate. Però non si fa mai il ragionamento inverso: in che misura l’urbanistica determina le disuguaglianze, il malessere, la povertà?

Una città disordinata, produce inevitabilmente una società disordinata. Ma è vero anche l’inverso. È un circolo vizioso. Le città storiche funzionavano come organismi viventi: crescevano nei momenti di espansione economica, e si contraevano in quelli di difficoltà. Il problema è che oggi l’espansione urbanistica non è più legata a questi cicli, ma a bisogni esterni alle sue reali necessità e dinamiche. Di conseguenza ci troviamo ad abitare città degenerate, quartieri che non sono più “luoghi” quanto le città storiche. Guardiamo Rieti: mano a mano che ci allontaniamo dalle mura, incontriamo periferie dall’identità sempre più debole.

Come si rimedia?

Per prima cosa smettendo di moltiplicare all’infinito questa serie di “non luoghi”: lavorando solo sull’esistente. Per secoli le città si sono sviluppate in verticale, uno strato sull’altro. Sulla Rieti originaria è cresciuta quella romana, quindi quella medievale, poi quella rinascimentale e così via. La dispersione urbanistica è una deviazione tutta moderna. In ogni caso non c’è motivo di costruire nuove case. Non sembriamo certo in procinto di una esplosione demografica! E comunque gli edifici vuoti non mancano. Semmai bisognerebbe consolidare l’esistente. Dovremmo tornare a pensare alla città come ad un organismo complesso, che non risponde solo alle logiche di mercato. E c’è l’urgenza di mettere il territorio al riparo da un dissesto sempre più grave. Un tema che andrebbe intrecciato con la salvaguardia del paesaggio naturale e storico del Paese.

Sarebbe una scelta in controtendenza rispetto a tutte quelle fatte finora.

Me ne rendo conto, e capisco la difficoltà di ragionare in modo diverso. Quanti di noi, anche tra gli amministratori, hanno da proporre una visione della nostra città da qui a trent’anni? Fino ad oggi ci si è sempre orientati secondo i cicli delle scadenze elettorali. Ma che abbiamo ottenuto? Certe scelte vanno pianificate su un arco di tempo più ampio, pensando ai nostri figli. In fondo li mandiamo a scuola a 5 anni sapendo che i risultati matureranno solo quando ne avranno venti o venticinque. Ecco, occorrerebbe questo tipo di progettualità anche per la città. Diversamente sarà davvero difficile fare il nostro bene come cittadini.

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