Ue-Siria, la lezione della storia

Da quando in Siria, il 21 agosto, si è fatto ricorso alle armi chimiche, la possibilità di un intervento militare in Siria da parte delle potenze occidentali ha provocato un vivace dibattito.

Qualsiasi previsione sul risultato politico o militare della crisi attuale sarebbe azzardata, dal momento che le posizioni politiche cambiano con rapidità vertiginosa. Tuttavia, sembra importante riflettere su questo momento eccezionale.

Subito dopo l’attacco del 21 agosto con armi chimiche, si è detto che è stata oltrepassata la “linea rossa”, giustificando in tal modo un’azione militare dal di fuori. Alcuni si sono chiesti perché: i presunti 1.400 morti sono di gran lunga superati dai circa 100mila che hanno perso la vita nella terribile guerra civile “convenzionale” in Siria. Eppure, il ricorso alle armi chimiche provoca giustamente una repulsione speciale e quasi universale, e giustificherebbe un’azione forte, se il regime di Bashar al-Assad potesse esserne dimostrato responsabile.

L’eredità della prassi dei governi occidentali si è rivoltata contro di loro, minando la fiducia (cruciale in tempi di crisi) da parte della propria opinione pubblica e degli altri Stati: la manipolazione delle prove da parte dei governi degli Stati Uniti e del Regno Unito nel caso dell’Iraq nel 2003; la condotta della Francia e del Regno Unito in Libia nel 2011, dove avevano assicurato il sostegno delle Nazioni Unite per un intervento umanitario in Libia, ma erano andati di gran lunga oltre il loro mandato; il ricorso alle armi chimiche su vasta scala e per diversi anni da parte degli Usa, che ha prodotto conseguenze orribili sui vietnamiti i cui effetti continuano ancora oggi.

Con tanti distinguo fra i propri membri, l’Unione europea è stata incapace, fino a poco tempo fa, di prendere una posizione univoca. Al vertice del G20, l’Ue ha giustamente insistito sul fatto che ci può essere solo una “soluzione politica”, non militare, in Siria. Probabilmente nessuno direbbe il contrario. La questione centrale è se una soluzione politica esigerebbe un intervento militare, o se un intervento militare esterno escluderebbe la possibilità di una soluzione negoziata, o almeno di una soluzione mediata dall’Occidente. L’Ue sostiene anche la nuova iniziativa Usa-Russia che, a suo parere, potrebbe portare a una conferenza di pace.

La risposta dei cristiani è stata forte e coerente, benché duplice.

Da parte di Papa Francesco, per esempio, si è concentrata sugli appelli, sui gesti di testimonianza pubblica e le esortazioni. La giornata, storicamente senza precedenti, di preghiera e digiuno, che ha attirato 100mila persone a piazza San Pietro, è stata sostenuta e sposata da numerosi leader di altre religioni, incluso l’islam.

Altri approcci si sono concentrati piuttosto sulla valutazione morale, spesso ricorrendo al classico criterio della “guerra giusta”. Il Primate della comunione anglicana, l’arcivescovo Welby, per esempio, ha sostenuto che siamo a un punto morto, vicini a una situazione da “ultima spiaggia”. La Conferenza episcopale degli Stati Uniti si è appellata al criterio della proporzionalità: in altre parole, l’azione richiede una ragionevole certezza che l’intervento sia in grado di scongiurare più male di quanto inevitabilmente ne causerà. I vescovi degli Stati Uniti ritengono che un attacco militare “risulterebbe controproducente”. Una possibile conseguenza potrebbe essere di esporre i cristiani in tutta la regione, considerati come alleati dell’Occidente, a rappresaglie ancora più feroci di quelle attuali. Un’altra conseguenza è che, nel pieno di una guerra civile, una punizione nei confronti del regime di Assad consista in un sostegno necessariamente efficace ai ribelli, per quanto estremisti possano essere.

La Chiesa non possiede né informazioni militari complete, né è in grado di offrire una soluzione politica dettagliata. Ha alle spalle una presenza impegnata da duemila anni in Siria, una culla del cristianesimo, ma non si basa mai sul discorso degli interessi nazionali (che inevitabilmente entrano in conflitto, come risulta evidente in ogni dibattito del Consiglio di sicurezza Onu). È assolutamente convinta che un attacco militare da parte di una potenza esterna sarebbe un fatto estremamente negativo, soprattutto per i più poveri. Pertanto esso esigerebbe una giustificazione straordinaria, che non è ancora stata fornita.