Lo spirito profetico di Ruskin

In “Cominciando dagli ultimi”, lo storico dell’arte si fa pensatore sociale

“La vera scienza dell’economia, che va distinta dalla sua scienza bastarda come si separano medicina e stregoneria o astronomia da astrologia, è quella che insegna alle nazioni a desiderare e a lavorare per le cose che portano alla vita e a disprezzare quelle che portano alla distruzione”.

John Ruskin (1819-1900) non è stato solo un grande critico dell’arte, vero e proprio bardo del movimento preraffaellita, autore di un libro, “Le pietre di Venezia” che ha riportato lo spirito religioso del medioevo all’attenzione dello scettico mondo culturale europeo di metà Ottocento: nella sua vita si è interessato di quello che dovrebbe essere il centro di ogni uomo, vale a dire la ricerca della giustizia. Solo che ai media di allora, come anche a quelli di oggi, non conveniva divulgare il suo pensiero sociale, perché non solo era controcorrente, ma minava lucidamente e con dati alla mano i presupposti su cui si reggeva il grande sforzo di industrializzazione europeo. Lo sfruttamento del lavoratore, l’inquinamento (“Gli uomini non possono bere vapore e mangiare pietre”) – siamo nel 1862! – e la critica ad una concezione della ricchezza di un Paese (il Pil di oggi) come unica meta da raggiungere, sono i cavalli di battaglia di Ruskin in un’opera che oggi possiamo leggere in italiano: “Cominciando dagli ultimi” (San Paolo, 125 pagine).

Qui lo storico dell’arte si rivela anche spirito profetico: se si vuole fare l’interesse esclusivamente materiale di un Paese, nel suo caso l’Inghilterra vittoriana, allora i cittadini “sacrificandosi per il bene generale dell’umanità, possono togliere valore alle proprie vite passando i loro giorni in mezzo al rumore, all’oscurità, alle esalazioni mortali. Il mondo però non può diventare una fabbrica, e neppure una miniera”. Da questo si comprende come una certa pubblicistica non abbia nessun interesse, anzi, a divulgare, ieri come oggi, il pensiero sociale di Ruskin: esso mina dalle fondamenta i principi dello sviluppo economico così come inteso dal liberismo esasperato e precede altre forme di contestazione di quei principi economici, come la decrescita e il distributismo.

Lo scrittore non teme di rivelare le radici del proprio pensiero economico, che non sono né quelle marxiane, né quelle legate alle teorie di John Stuart Mill, che anzi vengono contestate: sono passi biblici ed evangelici le basi di partenza per una rilettura dell’economia, che secondo Ruskin non deve arricchire il singolo attraverso lo sfruttamento, ma nobilitare le persone, compresi gli umili lavoratori, descritti da una certa stampa come uomini poco raccomandabili, e per lui “le persone più sante, più perfette e più pure che si possano trovare oggi sulla faccia della terra”. Radici cristiane e bibliche, dunque, che tengono conto soprattutto di Matteo 20, 13-14 (la necessità di pagare i lavoratori in modo uguale), Zaccaria 11,12 (il giusto riconoscimento del lavoro), e poi San Paolo e tante altre citazioni che mettono al centro la dignità del lavoratore e la necessità di capovolgere i valori del capitalismo industriale del tempo.

Qualcuno obietterà che Ruskin vede la realtà con gli occhi dello storico dell’arte, e quindi non con la necessaria conoscenza degli strumenti economici. Si può rispondere che Marx si è interessato di letteratura ed altre arti, come testimoniano alcuni suoi studi, e che molti economisti approfondiscono i rapporti culturali all’interno di una certa società in un dato tempo, perché è questa la strada per capire fino in fondo i problemi umani.

Per Ruskin l’uomo non è una macchina, come l’antropologia darwiniana sosteneva in quegli anni, e per questo non è possibile analizzarlo come una cosa: se consideriamo l’uomo diverso dall’animale, “la sua crescita non è limitata da queste leggi. È frenata solo dai limiti del suo coraggio e del suo amore”. Date queste premesse lo spirito è fondamentale per conoscere e per costruire una società più giusta, che Ruskin – in una sorta di rapimento mistico – vede già nel qui e nell’ora: “Allora, per le moltitudini della terra di malvagi e di stanchi, ci sarà una più santa riconciliazione di quella della piccola casa e della tranquilla economia, dove il Malvagio cesserà – non di soffrire ma di far soffrire – e lo Stanco troverà pace”.