Rieti e gli attivisti della bomboletta

Per qualcuno sporcano soltanto. Per altri fanno arte. C’è chi ci vede una cultura, ma anche chi pensa siano semplicemente il prodotto del degrado urbano. Parliamo dei writer, gli attivisti della bomboletta. Ce n’è sono di attivi anche a Rieti. Tra di loro, Moreno Colasanti in arte Sony, che abbiamo incontrato per capire qualcosa di più di questo mondo.

Moreno, perché il writer? Che differenza c’è tra chi sporca i muri tanto per farlo e chi usa muri e bombolette come ricerca artistica?

Se guardiamo all’essenziale nessuna. Entrambe sono prese di posizione. Chi sporca i muri ha fondamentalmente il bisogno di affermare la propria esistenza. Lasciare segni con la bomboletta sui muri o sui treni è come dire «io esisto». Ma nel writer c’è un livello di consapevolezza più alto. “Taggare” con il mio nome monumenti o palazzi storici non mi interessa, non serve a nulla…

ed è sbagliato!

Certo, ma per capire il fenomeno non ci si può fermare ad un giudizio superficiale. Va compresa la storia di emarginazione e miseria che c’è dietro allo sviluppo di questo modo di fare. Le origini del movimento si possono rintracciare nei più malfamati quartieri americani. Era come dire: «anche se vi facciamo schifo, anche se preferite non vederci, anche se ci volete confinati in un ghetto, noi esistiamo». A partire da questo il fenomeno si è evoluto e si è diffuso.

C’è stata una sorta di trasformazione da sottocultura a forma d’arte?

Sì. Innanzitutto si sono moltiplicati gli stili e i linguaggi. E ad un certo punto i writers si sono resi conto di essere inclusi in un orizzonte culturale più complesso, più ampio.

Oltre che un’estetica ha conquistato anche un’etica?

È così. Oggi è facile riconoscere i vandali, quelli che sporcano i muri solo perché gli va, perché non hanno altro da fare, da chi cerca di affermare un valore, un messaggio, un modo di essere.

Ad un certo punto è indispensabile uscire dalle “catacombe” per stare alla luce del sole…

In un certo senso è così. Del resto non ci si può fermare alla protesta. Deve pure arrivare il momento della proposta.

E come si fa?

Ad esempio andando in Comune a chiedere muri liberi da dipingere. In città ci sono superfici adatte, ma non sono state concesse facilmente. Ci sono voluti tre anni per vedere qualcosa di concreto. Ma si sa come vanno le cose a Rieti: se conosci qualcuno che conta bene, altrimenti goditi pure la tua lunga anticamera.

Ma avere un muro “autorizzato” non toglie gusto, senso, significato alla cultura del writer?

In parte sì, ma è anche vero che non siamo più negli anni ‘80, né viviamo nel Bronx. È inutile rinunciare alle opportunità per cristallizzarsi in schemi morti. Permeare la cultura cittadina facendo una proposta alla luce del sole, sembra più utile che rischiare una denuncia per vandalismo. Peraltro se ne avvantaggia la ricerca, lo sviluppo della tecnica pittorica, la qualità del risultato. L’adrenalina di dover lavorare velocemente di notte per non essere scoperti, può essere ben compensata dalla possibilità di poter lavorare con calma su ogni singola opera. Si conquista spazio per elaborare il linguaggio pittorico, per studiare nuove soluzioni.

E per questa strada la passione diventa anche lavoro…

Non solo, diventa arte. I writer sono presenti nei musei, nelle gallerie, nelle mostre… ovunque. Quanto al lavoro, va detto che Rieti non offre molto spazio. Anche perché l’associazione graffiti-vandalo è ancora la visione più diffusa. Qualche opportunità ovviamente c’è, ma per vivere di pittura occorre essere disposti a muoversi.

Molti si domanderanno che genere di committenza possa avere un writer…

Beh, tanto per fare un esempio ho realizzato la decorazione di un muro per la Lombardini. Ma la richiesta può arrivare dai soggetti più diversi: il privato che vuole rendere originale la facciata della propria casa, l’azienda che ha bisogno di un lavoro particolare per allestire lo stand di una fiera, la persona che si innamora del tuo stile e ti chiede un lavoro su tela per poterselo mettere in salotto…

A proposito dell’associazione vandalo-writer: ci sono luoghi come il Sud America in cui la pittura murale è tutt’altro che ostacolata!

È vero, ma parliamo di tutta un’altra cultura. Lì c’è dietro un’idea politica, un’istanza collettiva, una voce di popolo. Tutte cose che al writer non interessano. La sua è una voce individuale, completamente disinteressata da questo genere di questioni.

Ma non è un po’ presuntuosa l’idea di poter rivendicare solo per sé un muro altrui…

È la riappropriazione degli spazi che ci hanno rubato. Perché non dovrei rivendicare spazi che altrimenti sarebbero insignificanti, muri che altrimenti sono sempre a disposizione delle affissioni abusive del politico di turno?

A differenza del discorso di grande respiro sociale dei murales sudamericani, la posizione politica del writer sembra quella dell’individuo che si oppone ad un sistema corrotto. Al di là del gusto eroico, non è un individualismo un po’ sterile?

Non sono d’accordo, perché bisogna aggiungere che all’interno del macrocosmo hip hop si sviluppano comunità con visioni e interessi comuni. Sono corpi collettivi tenuti insieme da un forte senso di amicizia. In ogni caso c’è un sottofondo culturale. Il luogo in cui si nasce non è certo indifferente. Le varie forme di espressione – il writing, la breackdance, la musica – si sviluppano in modi autonomi a seconda dei luoghi. E questi contributi diversi a loro volta si mescolano e alimentano la storia del movimento.

Non è facile percepire tutto questo dall’esterno.

Forse neppure dall’interno! Anche perché è un panorama assai eterogeneo. In parte si va istituzionalizzando. Per altri versi vive ancora di prove di forza. Tanto per fare un esempio guardiamo al fenomeno skateboard. Quella tavola con le rotelle, in qualche modo corrisponde ad una forte esigenza dei ragazzi che la praticano. Si ha un bel dire che rovinano i marmi di piazza Mazzini. Loro hanno bisogno di uno spazio e se la città non glielo dà, molto semplicemente se lo prendono.

Ma per questa strada si scivola facilmente in un elogio dell’anarchia!

Infatti, ma la capacità di saper ascoltare le voci nuove e interpretare le esigenze che cambiano è compito delle istituzioni. L’anarchia si rischia se queste sono sorde, se non sanno mediare le esigenze, smussare gli angoli, trovare chiavi di convivenza con esperienze che non hanno alcuna intenzione di rinunciare a vivere. Ecco perché, ad esempio, abbiamo vissuto con disappunto l’uso fatto della facciata del magazzino merci delle Ferrovie dello Stato durante “Rieti Città amica dei Bambini”. I writers reatini chiedevano quello spazio (insieme a molti altri) da anni. Si è preferito affidarlo ad un “laboratorio di street art”. È stata una scelta infelice che ci ha lasciato in bocca il retrogusto della prepotenza. Ma forse – come dicevamo prima – a Rieti se non conosci…