Quando Wojtyla ordinò Lucarelli

Ricordando il 6 gennaio del 1997, diversi i reatini alla cerimonia di consacrazione nella Basilica Vaticana. Diciotto anni fa tra i dodici vescovi cui impose le mani Giovanni Paolo II il giorno dell’Epifania anche il presule nativo di Fano destinato a Rieti.

«Auguro che l’Epifania di Cristo risplenda in pienezza per te, monsignor Delio Lucarelli, pastore della diocesi di Rieti…». Le parole di Giovanni Paolo II rivengono alla mente in questo sei gennaio che segna, per il vescovo dell’antica sede reatina, l’anniversario che lo rende “maggiorenne” nella carica episcopale.

Il ricordo corre a quella mattina dell’Epifania del 1997. In un settore della gremita Basilica Vaticana c’eravamo anche noi: una folta delegazione di reatini giunti a partecipare alla liturgia con cui il Pontefice futuro santo avrebbe donato alla diocesi il nono e ultimo vescovo del XX secolo, colui che avrebbe poi accompagnato la Chiesa di Rieti nel nuovo millennio, fino a oggi. Diciott’anni, appunto. Chissà se poteva prevedere che li avrebbe tutti trascorsi nel capoluogo sabino, quel prete di Fano che all’episcopato giungeva dopo l’esperienza di rettore del Seminario regionale marchigiano e dopo tanti anni trascorsi a Roma alla direzione nazionale delle Pontifice opere missionarie, dov’era segretario dell’Opera di San Pietro Apostolo, quella che si occupa del sostegno al clero indigeno in terra di missione. Nei mesi precedenti l’ordinazione qualcuno da Rieti era già andato a conoscerlo.

Della stampa diocesana erano partiti, subito dopo la nomina giunta a fine settembre, gli inviati di «Frontiera», allora rivista quindicinale, che all’indomani della notizia comunicata dal predecessore Molinari lo raggiunsero, in un pomeriggio domenicale, a Roma, incontrandolo nei locali della basilica di Santa Teresa a corso d’Italia. Lì, nella parrocchia carmelitana in cui solitamente don Delio diceva Messa, raccogliere la prima intervista al neo eletto vescovo di Rieti toccò ad Alessandra Lancia e Ottorino Pasquetti. Gli stessi che, tre mesi dopo, furono incaricati di coprire anche la cronaca di quel sei gennaio in Vaticano e ai quali mi aggiunsi anch’io.

Il primo piano sull’ordinazione, che occupava quattro pagine sul primo numero del gennaio ’97, uscì dunque redatto a sei mani: l’articolo generale di Pasquetti sulla giornata, il pezzo a firma Lancia sul “primo abbraccio con i reatini” (che riferiva dell’incontro del neo ordinato con i conterranei marchigiani e i nuovi diocesani svoltosi nel Braccio di Carlo Magno), mentre a me toccò raccontare la liturgia in San Pietro. “Una liturgia dal respiro universale”, titolava il box, in cui attaccavo sottolineando come Lucarelli, reduce del lungo servizio speso per le missioni, non poteva lasciarsi sfuggire, scrivevo, l’occasione di essere ordinato «nel giorno della manifestazione di Cristo alle genti. Non per questioni di “onore”. Ma perché proprio questa liturgia esprime, in maniera tutta speciale, il senso dell’universalità della Chiesa e l’ansia missionaria, campo di lavoro di monsignor Lucarelli negli ultimi otto anni».

Il clima che si respirava nella gremitissima basilica, evidenziavo nel pezzo, era proprio di “universalità”. Il Papa polacco imponeva le mani su dodici presuli di diverse parti del mondo. Tre erano gli italiani: assieme al nostro Lucarelli, il rettore del “Capranica” monsignor Pacomio, destinato alla diocesi piemontese di Mondovì, e il francescano monsignor Massafra, da tempo missionario in Albania, ove veniva incaricato di reggere da amministratore apostolico la diocesi di Lezhë (proprio il territorio dove opera la missione delle nostre suore di Santa Filippa Mareri). In basilica noi reatini – a parte le autorità, con la delegazione comunale guidata dal sindaco Cicchetti, il prefetto Altorio, il presidente della Provincia Calabrese e altri, che godevano dei posti riservati – eravamo collocati in fondo alla navata. Al Te Deum finale monsignor Delio sfilandoci dinanzi ci individuò e ci benedì sorridendo.

Poi, terminata l’intesa cerimonia, ci radunammo tutti al Braccio di Carlo Magno per l’omaggio al neo ordinato, presenti anche i vescovi Molinari, che il successivo 2 febbraio gli avrebbe lasciato in consegna la cattedra di san Probo, e Cecchini, allora alla guida della sua nativa diocesi marchigiana di Fano– Fossombrone–Cagli–Pergola, oltre a Boccaccio, che al tempo governava l’altra diocesi della provincia reatina, la suburbicaria Sabina– Poggio Mirteto. Giunsero a intervistarlo le telecamere del Tg regionale di Raitre. E Lucarelli, alla domanda sulle prime impressioni, rispose: «Una sola, grande emozione». Quell’emozione che monsignore ricorda ancora oggi, in questo anniversario che potrebbe essere l’ultimo da vescovo “effettivo”, ora che si prepara a diventare “emerito”.

Alla ricorrenza dei suoi 18 anni di episcopato ha voluto fare solo un piccolo richiamo, a conclusione dell’omelia del pontificale celebrato in Duomo la sera dell’Epifania. Ha ringraziato tutti per l’affetto dimostrato e ha ribadito di guardare tutti con simpatia, lui che si è ritrovato a fare per quasi un ventennio il vescovo senza che in precedenza se lo potesse aspettare. Lo aveva voluto confessare che al ministero episcopale non aveva mai pensato nel suo percorso vocazionale, parlando in quella prima intervista all’indomani della nomina, nel citato incontro con i colleghi a Santa Teresa: «Quando divenni sacerdote credevo che la mia vocazione fosse quella di parroco, è un servizio che ho sempre cercato, e invece mi ritrovo vescovo. Vorrà dire che se commetterò errori o gaffes avrete pazienza e mi perdonerete».

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