Per la cura pastorale dei malati

Spesso il rapporto tra diritto e carità viene erroneamente inteso in senso sostitutivo, anziché inclusivo.

L’amore (carità) supera il diritto. Lo supera nel senso che lo comprende e oltrepassa, senza per questo costituire una alternativa ad esso. Sembra una riflessione ovvia, scontata, eppure la realtà sociale, nei contesti più disparati (scuola, lavoro, salute…), sempre più spesso appare quale luogo in cui il diritto – le norme di diritto positivo – è accantonato e sostituito da usi, costumi ed abitudini che, nella pretesa di interpretare la norma per superarne i limiti, finiscono per derogare alla stessa uscendo dal diritto, finendo quindi nell’arbitrio e nel sopruso.

Talvolta sembrano pie intenzioni, che, paradossalmente, aggirano le regole per meglio attuarne gli scopi. A ben guardare ci si trova la convinzione di essere al di sopra della legge e, soprattutto laddove si occupa un posto di responsabilità, la volontà di esercitare il potere.

L’osservanza scrupolosa della legge non è fariseismo, ma esercizio di umiltà e rispetto profondo dell’Altro, riconosciuto titolare di diritti tutelati dalle norme.

Il malato è soggetto di diritti sia verso i medici e il personale sanitario che verso eventuali volontari. Esercitare la carità da parte loro non significa mettere tra parentesi i diritti. Nella Deus caritas est (n.26-29) il Papa parla della necessità di superare la fredda osservanza delle norme a tutela dei diritti per riempire del calore della carità il nostro agire. Superare non significa accantonare, ma comprendere e andare oltre, non essendo la prospettiva del diritto estranea alla carità.

Istituzioni come il Tribunale dei Diritti del Malato, sono strutture attraverso cui esercitare un’autentica carità, intesa come servizio alla persona. Spesso invece queste realtà sono guardate con sospetto in ambito cattolico, dove si pensa, purtroppo, di fare meglio percorrendo altre strade. Eppure, si deve passare attraverso la difesa dei diritti per pervenire alla carità, perché difendere un diritto significa riconoscere l’assolutezza della persona dell’Altro e al tempo stesso riconoscere se stessi come attuazione di questi diritti.

Nel percorrere la strada delle regole che lo Stato e la Chiesa hanno elaborato, ci si riconosce vincolati all’osservanza di norme giustificate dalla storia stessa della civiltà umana, alla luce di 2000 anni di pensiero cristiano. È chiara allora l’impossibilità di porsi come arbitro delle relazioni, pretendendo di definire l’Altro e di conseguenza i diritti che gli spettano. Al contrario bisogna riconoscere la sua assolutezza, la sua irriducibile dignità di persona, come qualcosa che non sta al singolo stabilire.

Certamente l’Altro si impone alla coscienza quale dato che emerge dalla relazione interpersonale, ma non è creato da essa. Non è un “io” a definire l’Altro: questo è strumento, secondo una misura che ne lui, ne altri “io”, possono aver stabilito. Tale misura è data ad ogni persona da Dio: riconoscerlo comporta il sottomettersi ai valori che questa conduce, conformando concretamente il proprio agire alle norme che a tali valori corrispondono.

In sostanza, un’autentica pastorale dei malati non può esimersi dal denunciare alle istituzioni competenti gli episodi di malasanità che registra. Spesso invece di fronte alle lunghe liste di attesa – ad esempio – l’atteggiamento è quello di aggirare l’ostacolo con i soliti metodi: conoscenze, amicizie… è vero che la gravità della situazione in alcuni casi non consente di attendere, e dunque ben vengano i percorsi alternativi.

Ciò non toglie però il dovere morale di denuncia delle inadeguatezze che il sistema sanitario nelle sue diverse articolazioni evidenzia. La consecratio mundi passa attraverso la continua trasformazione delle strutture del mondo, per renderle sempre più adeguate alla misura della persona (che è immagine di Dio) perché nessuno debba dipendere dalla benevola concessione di qualcuno per potersi curare.

«Dio è giustizia. è questa la nostra speranza» (Benedetto XVI, Spe salvi, 44). La fede cristiana è una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita. La fede, la giustizia e la speranza costituiscono anche nella cultura post-moderna uno dei luoghi cruciali per intraprendere l’incontro tra la libertà dell’uomo e il Vangelo di Gesù.