Non chiamatela TINA

TINA (there is no alternative, non c’è alternativa) è l’idea di fondo implicita nel modo di vivere contemporaneo. Ce lo dicono i governi e ce ne convinciamo. Ma sarebbe tutto da dimostrare.

L’otto marzo, festa delle donne, è passato da poco. Dopo aver ascoltato i soliti discorsi si fa avanti una sensazione: siamo come su una nave che affonda, avanti le donne, i vecchi e i bambini!

Tra una mimosa e l’altra, infatti, c’è chi non ha rinunciato alla solita nenia: la società invecchia e arranca; bisogna lavorare di più e per più tempo. Tocca a tutti, donne comprese. Che bella festa! Magari tra un po’ toccherà anche ai bambini. Li metteremo alla catena di montaggio per competere con i paesi dell’Est! I tecnici, c’è da scommetterci, giustificheranno il tutto con la salvezza dalla crisi e dalla fame. Quanto alla vecchiaia, la formula è già data: se hai più tempo da vivere, lo devi impiegare per produrre. Guai a cambiare discorso. È inopportuno, addirittura offensivo. Si vive per far girare l’economia, mica per altro.

Messe così le cose, il problema del lavoro femminile, degli incentivi all’imprenditoria rosa, delle quote da riservare al sesso debole prende un altro sapore. Altro che opportunità di emancipazione: si deve vivere per lavorare e non lavorare per vivere! La gonna non può essere una scusa. Ecco la parità tra i sessi: non importa essere uomo o donna, conta solo essere competitivi sul mercato del lavoro.

Da questo punto di vista l’utero pare essere un ostacolo in più. Le donne, giustamente, denunciano le discriminazioni legate allo stato di gravidanza. Mancate assunzioni, lavoro nero e contratti non rinnovati sono il destino di chi ha la pancia in lievitazione. È scandaloso, siamo d’accordo. Ma raramente ci accorgiamo di come il tutto accada per lo stravolgimento del senso del lavoro.

Pare quasi che non si possa essere contemporaneamente persona e lavoratore. Le esigenze umane degli affetti e della famiglia sono considerati ostacoli alla crescita del PIL. Tanto più si fanno da parte, tanto meglio va la produzione. La riproduzione invece non va bene. Pare quasi che i figli siano una inutile zavorra a carico al meccanismo economico.

Una volta accettato il sistema è inutile lamentarsi se si arranca nel metter su famiglia. Sarebbe meglio tentare una inversione di marcia. Si potrebbe riconoscere che è sciocco voler appiattire le donne sui ruoli maschili. È discorso da retrogradi? Può darsi.

Qualcuno risponderà che ci sono paesi più civili del nostro in cui si fa questo e quello per conciliare maternità e lavoro. Va bene, siamo d’accordo. Ma la diversità di genere è una ricchezza della dimensione umana che va salvaguardata. La traduzione della pari dignità nell’uguaglianza assoluta sembra una forzatura, una impostazione lontana dai reali bisogni delle persone.

L’idea di donne e uomini interscambiabili nei posti di lavoro sembra piuttosto essere utile a chi pretende che tutti, maschi, femmine e femminielli, siano pronti a faticare sempre di più per avere sempre di meno.

E non guardiamo solo al reddito. Oggi si guadagna di meno e la vita costa cara. Ma i danni veri si rintracciano soprattutto sul piano esistenziale, sulla impossibilità di impegnarsi in progetti, sogni, passioni e speranze. Il tempo basta a malapena per rincorrere le troppe cose da fare per tirare avanti.

Sarebbe bello se le mimose di qualche giorno fa invitassero le donne a tenere in maggior conto la bellezza della vita, a testimoniarla, ad aiutare anche i maschi a non lasciarsi travolgere dal mito della produttività.

È vero che l’emancipazione femminile ha bisogno anche del reddito. Ma dalla scelta delle donne di non sacrificare completamente la vita al lavoro potrebbe derivare un mondo maggiomente a misura d’Uomo. Non serve il ritorno all’angelo del focolare. La sfida di oggi è riuscire a valorizzare le differenze lasciando ad ognuno la possibilità di realizzare davvero se stesso.