Cultura e società

Lo sport come identità

Questa riscoperta dell’identità italica può essere letta come una forma di nazionalismo aggressivo?

Lo sport come identità

Non solo calcio, e ad essere giusti, neanche solo il tennis di Berrettini, finalista sul prato magico di Wimbledon: anche in atletica siamo i primi, con le sei medaglie d’oro, 13 in tutto, agli europei di atletica leggera under 23 a Tallinn. Una stagione indimenticabile. Secondo alcuni, ci sono stati eccessi di trionfalismo, con le immagini virali, coniugate in tutte le possibilità visive (e visionarie), del povero Saka strattonato, anzi, preso per il bavero da Chiellini, che mostrano la parte più rude del pianeta vittoria ; secondo altri, e hanno ragione, gli assembramenti nelle strade, non solo con i protagonisti a sfilare a Roma, ma dovunque, avrebbero dovuto essere controllati e se necessario vietati. Con i rischi pandemici è diventato tutto più tremendamente diverso. E difficile. Il mostro non è stato ancora sconfitto.

Ma perché anche nei tempi virtuali e smaterializzati, la fisicità dello sport esercita questo fascino? Il motivo si cela nel nostro essere umani: è un fatto di compartecipazione fisica. Ormai la scienza ha dimostrato che i neuroni specchio si attivano anche solo osservando un’azione. Noi compiamo il gesto da casa, o allo stadio, assieme al campione. E ci sentiamo orgogliosi di essere come lui, in questo caso italiani.

Ma questa riscoperta dell’identità italica può essere letta come una forma di nazionalismo aggressivo? Intanto dobbiamo capire di cosa stiamo parlando. I martiri del risorgimento non si sono sacrificati per innalzare la loro patria sulle altre nazioni, ma per liberarla dal giogo straniero. Rivendicare l’appartenenza ad una cultura, ad un terra, a delle tradizioni contro chi o cosa (la mancanza di lavoro per i giovani in Italia, ad esempio) la nega, non è aggressività nazionalistica. È senso della radici. Come accade per la famiglia.

Ci sono state polemiche su quello che sarebbe stato il tentativo di sfruttare il trionfo calcistico in termini politici, ma qui il ricordo di Pertini esultante ai mondiali dell’82 dovrebbe suggerire come il calcio nazionale sia sentito come forma di identità e di passione, fin dalla più tenera età, quando i bambini escono di casa per affrontare il rito iniziatico della partitella con gli altri. Anche Mattarella, il nostro Presidente, ha esultato a Wembley, e con lui pure chi era appena reduce da tre ore e mezzo di scambi a quasi duecento all’ora con Djokovic, su un prato a qualche chilometro più in là.

Papa Francesco ci dà una autorevole mano per farci capire una cosa essenziale, e cioè che l’identità di un popolo non è di per sé nazionalismo o peggio imperialismo. Durante l’incontro con i giornalisti nel volo verso Baghdad, ha tenuto a sottolineare che “la diversità religiosa, culturale ed etnica, come quella che ha caratterizzato la società irachena per millenni, è una preziosa risorsa a cui attingere, non un ostacolo da eliminare”.

Se vogliamo tornare al trionfo di Wembley e alla finale in cui un venticinquenne italiano ha conteso al numero uno probabilmente più forte di tutti i tempi il trofeo di Wimbledon, possiamo se mai dire che quell’accusa non ci riguarda. Di fronte ad una vittoria legittima, squadra e rappresentanza della nazione ospitante si sono eclissate in un modo che dire non elegante è un eufemismo. Durante la premiazione a Church Road, il nostro Matteo non solo è rimasto fino alla fine, ma ha avuto parole di elogio per chi lo aveva battuto dopo più di tre ore di battaglia.

Quello istituzionale è stato un ringraziamento a chi ha portato in alto il prestigio del nostro Paese, non con le armi o i proclami razziali (non dimentichiamoci che nella nazionale campione d’Europa militano due giocatori nati in Brasile) ma con lo sport.Marco Testi