Chiesa di Rieti

L’economista Bruni all’Incontro Pastorale: «L’economia è benedetta se unisce lavoro, dono e povertà»

Può essere benedetta l’economia? Sì, se sa mettere insieme questi tre punti di un triangolo: lavoro, dono, povertà. Così ha dispiegato il tema affidatogli il relatore del secondo pomeriggio dell’incontro pastorale: il professor Luigino Bruni, chiamato a proporre il suo intervento all’assemblea radunata al centro di Contigliano.

Può essere benedetta l’economia? Sì, se sa mettere insieme questi tre punti di un triangolo: lavoro, dono, povertà. Così ha dispiegato il tema affidatogli il relatore del secondo pomeriggio dell’incontro pastorale: il professor Luigino Bruni. Anche stavolta è un economista cattolico, e uno di quelli particolarmente ferrati in quella “economia di comunione” e a quelle intuizioni della Laudato si’ di papa Francesco che lo hanno già inserito tra i “maître à penser”, appunto, delle «Comunità Laudato si’».

Chiamato da monsignor Pompili a proporre il suo intervento all’assemblea radunata al centro pastorale di Contigliano, Bruni lo articola nei tre punti che offrono alcuni input alla riflessione attraverso il guardare le cose da una certa angolatura che te le fa considerare in modo cui forse non avevi pensato.

Iniziando dal lavoro. Qualcosa di tremendamente serio, nella visione di fede. Ricorda, il professore, quanto spazio gli dia la Bibbia: ad esempio Geremia, «la cui vocazione profetica avviene mentre sta guardando un artigiano che sta facendo un vaso: la voce di Dio giunge durante un’attività sacra come il lavoro». Esso non è soltanto «un mezzo per vivere, un luogo dove le persone passano tanti anni della vita, ma ha a che fare con l’esperienza umana intima della persona». Il lavoro è l’elemento di comunione forse più importante per l’uomo.

«Quando si dice che il lavoro finirà con la robotica e l’informatica, bisogna stare attenti: ci sono certo lavori che è bene abbandonare, magari alienanti e faticosi, bene se saranno le macchine a fare lavori monotoni e tristi, ma guai se dovessimo smettere di lavorare! Noi comunichiamo lavorando. La struttura di reciprocità del mondo lavorativo è essenziale. Il lavoro è il cemento che unisce le persone che cooperano tra di loro». Ecco perché «non dobbiamo darci pace finché i giovani non cominciano un lavoro, avere giovani senza lavoro è un peccato mortale!».

In che modo il lavoro contribuisce a creare una “benedetta economia”? Attraverso il dono. «Un problema del nostro mondo, quello dell’economia sociale, di comunione, del mondo cattolico in generale: pensare che il dono sia “il limoncello a cena”, come se fosse un di più nel lavoro. E questo è un errore. Il dono è una faccenda che avviene soprattutto nelle ore normali della vita. Il dono di un lavoratore lo devi vedere mentre lavora, non nell’intervallo».

Che cos’è il dono? È ciò, spiega Bruni, «che non fa parte del contratto: la passione, il non dovuto, che è essenziale e se manca fallisce l’impresa». E come si fa a riconoscere nel lavoro il dono? «Semplicemente guardando i lavoratori mentre lavorano, però purtroppo i manager sono talmente impegnati a fare riunioni che non vedono mai i lavoratori e così non vedono neanche il dono. Uno dei problemi maggiori che soffrono i lavoratori oggi è la mancanza di riconoscimento di quello che fanno. Ci sono situazioni in cui nemmeno ce se ne accorge se lavori bene o lavori male!», in cui manca chi ti dica grazie. «C’è tanto dono nel lavoro normale (non nello straordinario), ma i responsabili delle imprese sanno che se riconoscono che il lavoratore ci mette di più questo crea legame, crea una situazione di “parità”, che è quello che i responsabili delle imprese non vogliono. E allora si trasforma in contratto, diventa dovuto».

Terzo punto: la povertà. «Che cosa sta accadendo nell’ambito della povertà negli ultimi dieci, quindici anni? Una trasformazione sottile ma molto potente e costante, non la vedi ma agisce: l’idea che il povero sia un colpevole. Stiamo importando l’antica idea che la povertà è colpa. Idea tipica dei paesi anglosassoni, della cultura protestanti, l’idea che il povero è un pigro, un fannullone, mentre nel mondo cattolico idea diversa, che il povero è sventurato. E L’Idea che il povero è colpevole mi esonera dal dover fare qualcosa, perché tanto è colpa sua! Un concetto che sta entrando pesantemente, c’è anche questo dietro la crisi del welfare».

Eppure, avverte il professor Bruni, «se non combattiamo questa idea buttiamo via duemila anni di cristianesimo». E nel linguaggio usato per giustificare l’idea della povertà come colpa c’è un termine preciso, «il termine meritocrazia. È la nuova versione della disuguaglianza. La cultura meritocratica interpreta il talento come merito, per cui non riconosce più la provvidenza, non riconosce più il valore del dono». E invece – è la chiosa finale – «la democrazia è molto più della meritocrazia, è guardare i diversi meriti che ognuno ha».