In difesa della politica

Oggi la politica è attaccata da ogni fronte, soprattutto a causa della propria decadenza e della propria incapacità. Ma al di sotto di questa demolizione c’è l’interesse di altri poteri di privare gli uomini e le donne di strumenti di cittadinanza.

Mentre nell’Antichità la libertà si raggiungeva in primo luogo tramite la partecipazione attiva e costante dei cittadini alla vita pubblica, per i teorici moderni, e soprattutto per i teorici liberali, la libertà si definisce come ciò di cui si può veramente godere soltanto nella sfera privata. Ciò significa che la libertà non è più ciò che la politica consente, ma ciò che le è sottratto. In altri termini, la libertà risiede innanzitutto nella garanzia di poter sfuggire alla sfera pubblica, di potersi liberare del politico.

Questa concezione “sottrattiva” della libertà è sostenuta dall’idea che il potere politico sia soltanto un male necessario, che ogni potere rappresenti per sua stessa natura un pericolo: sempre sospettato di volersi estendere, esso minaccia per forza la libertà, dal momento che quest’ultima si definisce come la parte di esistenza che gli sfugge.

L’idea da far propria è che la politica, essendo cominciata a un certo momento della storia umana, può anche finire: creata, secondo i teorici contrattualisti, da un atto di volontà, potrebbe benissimo scomparire per via di un altro atto di volontà; basterebbe che gli uomini non ne avessero più bisogno.

Si proibisce ai politici, di cui si dà per scontata la malvagità, di difendere persino le proprie prerogative di fronte ai pensieri pii che compongono il discorso del Bene. Un diluvio di moralismo moralizzatore sommerge gli ultimi punti di resistenza di un realismo invariabilmente descritto come cinico o perverso.

Una prima forma di ricorso alla morale come modo per ridurre lo spazio politico consiste nell’apparizione di «comitati etici», nel riconoscimento di «autorità morali», nella moda delle organizzazioni «caritatevoli».

Lasciando intendere che i problemi sociali (disoccupazione, emarginazione, ecc.) siano problemi prima di tutto morali, l’ideologia dominante riduce la giustizia sociale a carità, disarmando le rivendicazioni.

Va sottolineato poi come in una società in cui la complessità interna non fa che crescere, e in cui lo Stato si fraziona in una molteplicità di istanze politico-amministrative operanti a più livelli, il ruolo dei tecnocrati cresce inevitabilmente.

I politici, dal canto loro, si trincerano dietro l’opinione degli esperti, che non mancano di evidenziare la complessità dei loro dossiers, cosicché, in caso di fallimento, più nessuno è responsabile o colpevole.

L’attacco alla politica deriva in questo caso dall’idea che per ogni problema politico o sociale alla fine esista un’unica soluzione tecnica possibile, e che spetti agli esperti determinare razionalmente la soluzione ottimale.

La conseguenza è l’esercizio sempre più razionalizzato e burocratico del dominio e la dimenticanza, da parte dei politici e degli elettori, del fatto che spetta a loro decidere le finalità dell’azione pubblica, con in sottofondo l’idea che la democrazia è una cosa troppo fragile per essere affidata al popolo e che, per rimanere “governabile”, essa deve per quanto possibile essere sottratta alla partecipazione e alla deliberazione pubblica.

Questo atteggiamento ha espropriato gli uomini dell’agire e, per riconciliare quella scissione tra pensiero e azione, bisogna difendere e rifondare lo spazio della politica. Solo quando il cittadino esercita il suo diritto ad agire nello spazio politico si dà inizio a qualcosa di nuovo, si genera una possibilità d’avvenire e di progresso.

In tale dimensione la politica coinvolge la pluralità degli uomini e non solo gli “addetti ai lavori”, riuscendo a rendere agenti della storia tutti i soggetti, tornando ad interpretare il ruolo che le spetta quale reale strumento di salvezza per le istituzioni partecipate, e il bene pubblico.