Chiesa

Il vescovo di Bergamo: «Abbiamo sempre sentito la carezza di Papa Giovanni XXIII»

Monsignor Francesco Beschi, vescovo della città lombarda, è un pastore che ha visto il suo gregge dimezzato nei numeri, provato dal dolore, oggi fiaccato profondamente, ma esorta a non abbattersi, confidando nella straordinaria scoperta della vicinanza tra le persone

Una Pasqua di solitudine, vissuta tra i lutti e i tanti disagi che la pandemia sta provocando, dalle sofferenze fisiche ai problemi economici. Nella benedizione Urbi et Orbi, Papa Francesco non ha dimenticato il dolore provocato dal coronavirus, esortando però a sentire la mano del Signore che non ci lascia soli ma anzi ci ripete: “non temere!” Parole che sono consolazione soprattutto in quelle zone profondamente colpite dal virus, come la Lombardia e in particolare Bergamo.

Monsignor Francesco Beschi, vescovo della città lombarda, è un pastore che ha visto il suo gregge dimezzato nei numeri, provato dal dolore, oggi fiaccato profondamente, ma esorta a non abbattersi, confidando nella straordinaria scoperta della vicinanza tra le persone:

R. – Ciò che in questo momento ci sospinge è il desiderio di riprenderci, di ricominciare, di rialzarsi però tutto questo non può avvenire semplicemente voltando pagina. La Resurrezione è qualcosa di sorprendente, noi possiamo rialzarci ma risorgere è sempre una grazia, è un dono, è una sorpresa e noi abbiamo bisogno di questo dono, del suo annuncio e della fede con la quale accoglierlo. Ne hanno bisogno tante tante famiglie che hanno perso i loro cari e che non hanno potuto nemmeno vivere la consolazione della loro sepoltura. Ne abbiamo bisogno tutti perché abbiamo avvertito l’allungarsi dell’ombra della morte sulla nostra terra, quindi l’annuncio della Resurrezione non è una consolazione facile in questo momento, è veramente aprire il cuore ad una possibilità che Dio ci offre attraverso la vicenda di Gesù e appunto la sorpresa di questa vita nuova che nasce proprio da una morte, da quella croce e per l’amore con il quale Cristo l’ha abbracciata.

Nel celebrare il Venerdì Santo all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, lei ha detto che “non è il grande dolore di Gesù che ci salva, ma è il suo grande amore che trasforma la croce nell’albero della vita”. Come concretamente questo può realizzarsi nell’isolamento che invece rischia di far vincere la tentazione all’abbattimento?

R. – La tentazione è in agguato, insieme alla tentazione della desolazione c’è anche la tentazione della rabbia che sta crescendo. Quindi da una parte è una specie di depressione, non solo psicologica, ma anche morale, direi esistenziale, perché la prova è stata molto forte, dall’altra la rabbia perché adesso bisogna capire le ragioni. La rabbia a volte poi va in direzione della ricerca del colpevole, delle responsabilità che ci sono ma credo che questa forza debba essere trasformata, che questo albero della Croce che è un albero maledetto debba diventare l’albero della vita per chi ci sale, come Gesù con questa potenza d’amore che addirittura è capace di riscattare l’uomo dal male. Anche la nostra sofferenza, addirittura la nostra rabbia, può essere trasformata nel momento in cui tutto quello che abbiamo provato, pure in termini di generosità eroica, diventa un sentimento che abita il cuore non solo nel momento del bisogno estremo ma anche nella nostra vita quotidiana.

Lei ha perso molti sacerdoti che non hanno indietreggiato davanti al pericolo. Loro come tanti infermieri, medici, volontari. Francesco li ha definiti eroi di oggi, i santi della porta accanto. Cosa ci insegna la loro dedizione? E che speranza rappresentano per il futuro di una società che, dopo il coronavirus, non potrà più essere come prima?

R. – Che non potrà più essere come prima è quello che pensiamo tutti. Nello stesso tempo, appunto, ci può essere anche qui l’idea, la speranza, il desiderio che tutto torni come prima, in realtà quello che abbiamo vissuto non ci permette, non solo materialmente ma anche moralmente e spiritualmente, di tornare come se nulla fosse successo. Queste persone, dai medici agli infermieri, ma anche tutte le persone che in questo momento hanno garantito i servizi essenziali, i sacerdoti, ci consegnano questa eredità spirituale che, per quanto riguarda i sacerdoti e debbo dire anche le parrocchie, assume il volto semplice di una parola che potrebbe essere quasi banale, è la vicinanza. Non è banale, perché una delle cose che mi ha commosso di più, e la conferma l’ho avuta da una mail che ho ricevuto, è la testimonianza delle persone nei confronti dell’azione dei loro sacerdoti. In quell’azione – dicono – abbiamo riconosciuto la vicinanza di Dio. Io credo che questo sia un tesoro prezioso che la comunità cristiana non può disperdere.

Quanto la figura di Giovanni XXIII ha sostenuto lei e la sua diocesi in questo momento difficile…

R. – Il riferimento al Papa è stato forte in queste settimane, non solo per il segno che abbiamo posto andando a Sotto Il Monte e presentandoli la nostra supplica, ma perché le persone, non soltanto nel momento dell’emergenza, fanno riferimento a lui con grande facilità e anche con grande devozione perché appunto è un patrimonio diffuso. Papa Giovanni mi sembra sia ancora una figura cara al mondo ma certamente molto cara a Bergamo, come lui ha avuto caro Bergamo. La figura di Papa Giovanni è fortemente legata all’immagine della carezza. Ecco l’immagine della carezza, soprattutto nel momento in cui la riportiamo a Papa Giovanni, non è un’immagine sdolcinata, è proprio quella carezza che ti apre il cuore, è la carezza capace di ridare speranza. E tante volte in questi giorni drammatici, noi abbiamo avvertito questa carezza scambiata con grande generosità da una persona all’altra, da chi poteva concederla a chi in quel momento aveva bisogno di riceverla.

In questa epidemia, Papa Francesco ha mostrato una grande vicinanza nei confronti di chi sta soffrendo, di chi sta operando. Cosa ha rappresentato per lei sentire questa presenza? C’è un particolare risvolto che vuole raccontare, un momento di questa vicinanza che l’ha colpita particolarmente?

R. – Il Papa mi ha telefonato e quindi quello è stato chiaramente un momento di grande commozione, tra l’altro eravamo proprio nei giorni della massima virulenza del contagio. Questo raggiungerci da parte del Papa perché ho interpretato questa telefonata non solo rivolta a me ma a tutta la comunità, è stato qualcosa di commovente e addirittura capace di infondere non solo forza ma addirittura gioia. E’ questo è proprio il segno, la concretezza del suo interessamento a chi in quel momento soffriva di più, il suo pensiero a tanti sacerdoti morti è stato espressione di una vicinanza a tutti i sacerdoti. E’ un qualcosa che dà forza, forza spirituale. La forza della relazione che alimenta la fede diventa poi anche forza morale e capacità di gestire, giorno per giorno, la resistenza rispetto a tutti i motivi di indebolimento che sono presenti. E poi però non si è dimenticato il nome di Papa Giovanni, ha voluto destinare una somma non irrilevante all’ospedale più grande della nostra città che porta il nome del Pontefice. Io sono stato a celebrare nella bella chiesa dell’ospedale proprio per dare un segno di questa presenza del Signore in mezzo agli ammalati, e il Papa ha fatto arrivare ancora materiale sanitario perché potesse essere distribuito in aiuto a chi lavora e agli ammalati. Parlavo anche con la dirigente dell’ospedale e sono rimasti –  se si può usare questo aggettivo – incantati da questa sua premura, da questa sua vicinanza.

Da Vatican News