Giovani reatini e alcol: un problema da prendere sul serio

Si terrà sabato 15 novembre alle ore 9 presso l’auditorium Varrone, l’incontro formativo su “Alcolismo: il disagio del consumo di alcol tra le giovani generazioni”, promosso dall’Ufficio Diocesano per la Pastorale della Salute di Rieti. In vista dell’appuntamento, abbiamo approfondito il tema con il diacono Nazzareno Iacopini, responsabile dell’ufficio.

Direttore, da qualche tempo la diocesi sembra molto impegnata nell’organizzare incontri e iniziative, formative e informative, attorno ai temi sociali più rilevanti e attuali…

È vero, è un atteggiamento che ha a che fare con gli sforzi con cui la Chiesa cerca di promuovere il bene della famiglia, con un occhio particolare ai suoi componenti più fragili. L’iniziativa che promuoviamo il 15 novembre ne è un esempio, e sembra fare bene il paio con l’evento promosso nelle scorse settimane dall’Ufficio Pastorale dei Servizi Sociali attorno alle nuove droghe e alla loro diffusione su internet. Ma il discorso non è di adesso. Questo convegno sul problema dell’alcol tra i giovani va infatti letto in continuità con gli incontri formativi degli scorsi anni, centrati ad esempio sulle dipendenze da internet o sulla ludopatia.

Si direbbe che la Chiesa sia intenzionata a non rinunciare ad un ruolo nella formazione delle giovani generazioni.

Alla Chiesa, sia come missione che come istituzione, sta a cuore il benessere, la salute. la felicità a cui è chiamato ogni uomo. Ma è nel formare il ragazzo che si forma l’uomo. Dunque lo sguardo attento e vigile della Chiesa si rivolge alle giovani generazioni: nelle loro mani è il nostro destino.

Ma perché guardare proprio al consumo di alcol?

Perché i dati sono sempre più allarmanti. I certi casi si comincia a consumare alcolici già a undici anni. In questo l’Italia ha un record negativo, anche se gli altri Paesi hanno poco da stare allegri, visto che il primo bicchiere si assaggia mediamente attorno ai tredici anni. In ogni caso, quando si inizia è un bere per bere: a qualunque ora, senza limiti. Forse perché la cosa sembra dare un gusto diverso alla vita. O forse perché l’alcol per un po’ aiuta a sentirsi più forti o più sicuri. Ma è un inganno.

Ma davvero una emergenza?

I dati parlano chiaro. Fra i giovani l’alcol miete più vittime della droga. Il sabato sera al Pronto Soccorso il fenomeno è ormai una routine. Ci finiscono le vittime della guida in stato di ubriachezza o i ragazzi in coma etilico. E quando arrivano i genitori sembrano ignari e disperati, quasi avessero scoperto di non conoscere realmente i propri figli.

Chi sono i ragazzi che abusano dell’alcol?

Molti sono ragazzi comuni, di quelli che magari vanno a scuola anche con buoni risultati, a volte ottimi. Ovviamente è difficile riconoscerli quando non sono ubriachi. Spesso il disagio è dissimulato sotto una patina di ordinarietà. Ma l’abitudine alla bottiglia non ha niente di pacifico. Anche se in tanti credono sia normale sballarsi e perdere il controllo di sé. Evidentemente percepiscono la qualità del proprio stile di vita in modo distorto. Altrimenti come potrebbero sentirsi a posto con un superalcolico in mano? Come potrebbero credere di essere nel giusto se per loro parla il vino?

Le cattive abitudini sono sostenute anche dalla moda? I più giovani cedono alla tentazione del bicchiere anche per essere accettati nel gruppo?

Sì, ci sono anche questi aspetti. Talvolta per i teenagers ubriacarsi è motivo di vanto. I ragazzini si vantano di aver preso sbornie incredibili. E se le procurano con metodo, iniziando con gli happy hour, passando dalla birra e finendo con i superalcolici o mischiando un po’ di tutto per dare il colpo finale. È il cosiddetto binge drinking: un consumo di più bevande in grandi quantità e in poche ore per raggiungere la sbronza più velocemente. È una specie di rito, sempre più diffuso. Fino a pochi anni fa bere era sinonimo di degrado. Era considerato un vizio delle classi più basse, tanto che negli ambienti sociali più elevati si tendeva a nasconderlo. Oggi, invece, farsi vedere con una bottiglia in mano già da 11-12 anni fa quasi “tendenza”. Anche al parco ci si va dopo aver comprato diverse bottiglie di birra, e tutti insieme si beve aspettando di intontirsi fino a vomitare.

Ma la legge vieta la somministrazione degli alcolici al disotto dei sedici anni.

È vero, ma i ragazzi aggirano i divieti portandosi le bottiglie da casa o comprandole nei supermercati.

In ogni caso questo modo di fare non sembra particolarmente divertente. A sentire queste storie, piuttosto, prende una certa tristezza…
Si dice che si beve per dimenticare. Si potrebbe leggere l’atteggiamento di questi ragazzi come un tentativo di sparire, di non esserci. È vero che il bere può sembrare un mezzo per socializzare, ma in fondo lo scopo è ottenuto al prezzo di un terribile conformismo. L’alcol è in grado di sostituirsi ai divertimenti, ai desideri, agli entusiasmi. Sembrerebbe che per questi ragazzi non ci siano passioni, allegrie, progetti. Si direbbero travolti dalla noia. Anche quelli super impegnati dai propri genitori non sembrano essere né entusiasti, né disinvolti. E forse si cerca nell’alcol uno stimolo o un senso.

Mentre in realtà nella maggior parte dei casi ci si guadagna solo il rischio di una seria dipendenza.

Infatti. Molti di loro sono convinti di gestire il problema. L’idea della dipendenza non li sfiora. Li preoccupa di più di essere esclusi del gruppo, di essere considerati sfigati. E quindi bevono anche senza averne voglia. Forse accade anche perché la dipendenza da alcol è molto sottovalutata. Eppure ha costi sociali enormi: per gli incidenti stradali, per le patologie legate al fegato e per quelle psichiche.

Ma perché questo crescente bisogno di stordimento tra i giovanissimi?

Non sono analisi semplici da fare. Molti sembrano soli e fragili, ma l’adolescenza è sempre così. Dà più preoccupazione vederli senza mete, quasi fossero incapaci di desiderare. Si potrebbe dire che accade perché hanno tutto, perché sono stati anticipati anche nei desideri, e che questo non li ha resi né più felici, né più forti, ma solo più deboli, paurosi, e senza grandi iniziative. Ma con questi argomenti si corre sempre il rischio di cadere nei luoghi comuni di una sociologia da quattro soldi.

Ma allora che fare?

Credo che diffondere una corretta informazione con l’aiuto degli esperti – come nel caso del convegno del 15 novembre – sia un buon punto di partenza. Credo anche che le cose andrebbero meglio con un po’ più di coerenza da parte degli adulti: rispetto alle leggi, alle pubblicità, agli esempi che danno in generale. Non bastano le belle parole: è necessario che il piano culturale non rimanga astratto, ma dia forma alle azioni. Di fronte a questo e ad altri problemi, un lavoro per dare concretezza ai valori sembra l’unico programma di prevenzione efficace.