Don Domenico in fabbrica: «siate protagonisti e non semplici assemblatori»

«Vorrei invitarvi ad un momento di preghiera e poi salutarvi ad uno ad uno». Così il vescovo Domenico ha spiegato ai lavoratori dello stabilimento Lombardini di Rieti la sua visita di giovedì 17 marzo, accompagnato dal direttore della Pastorale diocesana del Lavoro, don Valerio Shango, e dalla direttrice di Unindustria Rieti, Rosalia Martelli, dopo essere stato accolto in Lombardini dal dg Claudio Galli, arrivato per l’occasione dalla casa madre di Reggio Emilia, dal direttore dello stabilimento Paolo Reginaldi e dal capo del personale Antonino Massari.

Un incontro pensato per portare gli auguri di Pasqua, ma anche per testimoniare in prima persona i messaggi lanciati nel Giubileo con i lavoratori la scorsa domenica.

«Veniamo da anni piuttosto stanchi, depressi» ha ammesso mons. Pompili. «Questo augurio non vuol essere una pacca sulle spalle, ma un appello anche alle forze a noi superiori. Talvolta di fronte a ciò che accade non si sa veramente a che santo votarsi».

Forse la mente va all’incerto destino della vicina Solsonica, o alle tante altre vertenze ancora aperte nel nucleo industriale. Ma il vescovo coglie più in profondità il dramma del lavoro che manca. Esso infatti «non è semplicemente una maniera per sbarcare il lunario», è qualcosa di più radicale, «è la maniera con cui ciascuno può fare la propria parte».

Una lezione che don Domenico ha tratto dalla Lettera ai Tessalonicesi dell’apostolo Paolo, ma che nella Giornata dell’Unità nazionale e della Costituzione ha implicitamente colto in quale senso la nostra Repubblica è «fondata sul lavoro». Un orizzonte che per i credenti si allarga fino riconoscersi, in qualche modo, «collaboratori di Dio», affinché «il campo del mondo possa essere coltivato».

Mons. Pompili sa di correre il rischio di risultare troppo “poetico”, ma è altrettanto consapevole del piano su cui oggi si gioca la partita: «se il lavoro viene semplicemente ridotto ad un oggetto, dimenticando chi ne è il soggetto, rischiamo di perdere l’orizzonte e di ridurci ad essere semplicemente degli ingranaggi». È scivolando su questa china che il lavoro diviene «evanescente»; è questa dimenticanza del lavoratore come “soggetto” a permettere nella nostra società «cambiamenti troppo veloci per essere metabolizzati».

Dunque «non dovremmo mai dimenticare che in realtà quello che facciamo, anche di piccolo, di apparentemente insignificante, fa parte di una dimensione più ampia». Una dimensione profondamente umana, perché «il lavoro è veramente ciò che fa l’uomo, senza il lavoro l’uomo sarebbe incapace di esprimere se stesso».

Da qui l’auspicio di saperlo sempre vivere con consapevolezza e senso di responsabilità: «nel lavoro la quantità ha un suo rilievo, ma è la qualità a dare la misura» ha sottolineato il vescovo. Una esortazione a diventare «protagonisti e non semplici assemblatori», che porta a ribaltare anche un pensiero radicato. Infatti «Non è il lavoro che nobilita l’uomo, ma è l’uomo che nobilita il lavoro e lo trasforma in arte».